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Bersani e le primarie Così Renzi fa paura al Pd

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Il segretario Pier Luigi Bersani ha dovuto pagare un prezzo forse troppo alto, quello della indeterminatezza, per farsi approvare ieri all'unanimità dalla direzione del Pd la pur coraggiosa sfida preannunciata al giovane e contestatore sindaco di Firenze Matteo Renzi. Che non vedeva, e non vede, l'ora di misurarsi con lui in un bel turno di elezioni primarie per la candidatura alla guida del governo nella prossima legislatura. E si sa che cosa potrebbe significare per il suo partito, e più in generale per la sinistra, una vittoria di Renzi: una rivoluzione modernizzatrice, in qualche modo paragonabile a quella tentata a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta da Bettino Craxi, purtroppo naufragata nelle secche di Tangentopoli. Dove qualcuno, guarda caso, ha già tentato nei giorni scorsi di spingere anche Renzi compiacendosi del tentativo dell'ex tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, di coinvolgerlo nella vicenda a dir poco inquietante dei «rimborsi» elettorali sperperati e scomparsi nel partito della ex sinistra democristiana di Franco Marini e degli ex radicali e verdi di Francesco Rutelli, dopo la sua unificazione con l'ex-Pci guidato, nella sua penultima edizione, da Piero Fassino. L'ultima edizione dell'ex Pci, visto il maggiore e perdurante peso numerico e politico dei post-comunisti, si è rivelata proprio il Pd. Che non a caso è passato nel giro dei suoi primi due anni, fra il 2007 e il 2009, dalla guida di Walter Veltroni a quella di Bersani, della medesima provenienza politica, con un brevissimo interregno dell'ex democristiano di sinistra Dario Franceschini, ora capogruppo alla Camera. Una vittoria di Renzi alle primarie, in vista delle prossime elezioni politiche, diventerebbe anche per questo un evento politicamente eccezionale, destinato a sconvolgere gli equilibri all'interno del partito. E ancora di più i suoi rapporti all'esterno, con quei potenziali alleati di Bersani nella famosa foto di Vasto che sono, a dispetto delle polemiche che si scambiano spesso con parole anche grosse, Nichi Vendola e Antonio Di Pietro. I quali, del resto, caratterizzati rispettivamente da un massimalismo marxista e da un giustizialismo ossessivo, considerano Renzi un'autentica iattura. E ne sono, in questa valutazione, giustamente ricambiati. La disponibilità di Bersani alla sfida di Renzi si è diluita in un calendario tanto incerto quanto sospetto. In particolare, il segretario del Pd le ha annunciate «entro l'anno», e non più per il 14 ottobre, come aveva lasciato prevedere. Una data che aveva allarmato, fra gli altri, Massimo D'Alema. Il quale ha significativamente smesso di mugugnare, anzi ha apprezzato e votato la relazione del segretario quando ha visto le primarie allontanarsi. Vi è ora più tempo per cercare di evitare l'appuntamento, o di svuotarlo, o di rovesciarne il senso e le prospettive. Per esempio, fissando paletti programmatici da vecchia sinistra o modalità capaci di limitare o persino di capovolgere il promesso e annunciato carattere «aperto» delle primarie. Tanto aperto, per esempio, da permetterne il condizionamento da parte di Vendola e di Di Pietro. Che non a caso hanno accolto con un certo sollievo le conclusioni della direzione del Pd, continuando peraltro nella loro offensiva, clamorosamente condivisa nello stesso Pd da Romano Prodi, per le pratiche lottizzatrici alle quali ha appena partecipato nel rinnovo delle commissioni, o Autorità, di garanzia delle comunicazioni e della privacy. «La spinta al suicidio di questo partito non ha limiti», ha tuonato dall'estero l'ex presidente del Consiglio facendo sobbalzare il segretario, che ha raccomandato anche a lui, come a Di Pietro fuori dal Pd, «toni accettabili» di critica. Un motivo in più anche per allungare il brodo delle primarie.

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