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di Davide Giacalone Con una disoccupazione altissima, e in crescita, è singolare che nel governo si creino divisioni sui licenziamenti, anziché concentrarsi sulla crescita e, quindi, sulle assunzioni.

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Daquesto punto di vista ha ragione il ministro del lavoro, Elsa Fornero: anche i dipendenti pubblici devono essere licenziabili, con gli stessi criteri che valgono nel settore privato. A far resistenza è il collega che si occupa della funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, il che si comprende, visto che ha appena finito di proporre di trasformare la valutazione personale in valutazione collettiva, cedendo alle richieste sindacali, il che ben si concilia con i premi a pioggia, ma cozza con l'idea che gli incapaci o gli inutili siano penalizzati. Attenti, però: qui si confrontano due torti, che creeranno un problema al governo. Potenzialmente capace di provocarne la caduta. I lavoratori del settore privato sono già oggi licenziabili, mica c'è bisogno di aspettare la riforma Fornero. Il punto è la certezza del diritto, ovvero una legislazione che consente un ricorso al giudice, laddove s'incardina un procedimento lungo, al termine del quale l'azienda può trovarsi non solo a dovere reintegrare il lavoratore, ma anche a doverlo pagare per tutto il tempo che non ha lavorato. Ciò non invoglia ad assumere, se proprio non è necessario. A questo si aggiunga l'alto costo del lavoro, che non è alto livello del salario, ma questo è un altro discorso. Ebbene, la riforma Fornero non solo non risolve questo problema, ma diversificando i possibili licenziamenti moltiplica anche le possibilità di ricorso, mentre rendendo troppo caro il licenziamento con indennizzo sposta la convenienza o verso quello per crisi economica o verso le tattiche di mobbing. Non un bel risultato. E' giusto sostenere che non deve esserci, in materia, una discriminazione fra lavoratori pubblici e privati, a favore dei primi, che risulterebbero, come già sono, assai più protetti. Ma non ha torto Patroni Griffi quando pone il problema degli indennizzi: chi li paga, il dirigente che prende la decisione o le casse dello Stato? Nel primo caso è facile immaginare quale sarebbe la conseguenza: nessuno disporrebbe mai un licenziamento. Nel secondo la deresponsabilizzazione riproporrebbe il peggiore difetto della pubblica amministrazione, scaricandone i costi sulla collettività. Ma tale incertezza è esistente anche per il privato, divenendo macroscopica nel pubblico, sicché l'obiezione di Patroni Griffi non è solo un modo per resistere a quel che è giusto, ma anche un rilievo non da poco sull'impianto complessivo della riforma del lavoro. Dilemma, questo, che tocca al presidente del Consiglio dirimere, senza cedere alla tentazione di spostare lo scontro solo sui titoli e sui principi, magari cercando la crisi «dalla parte giusta», ovvero sul versante Fornero. Lo stesso presidente, del resto, ha fin qui bloccato la discussione, in Consiglio dei ministri, della controriforma del pubblico impiego, ben rendendosi conto che non ha senso pagare un prezzo politico che sarebbe altissimo a quello che viene considerato un modo per smontare una riforma, quella che porta il nome di Renato Brunetta, che ha il difetto di non essere stata applicata, ma che Monti, forse non a caso, ha affidato alle cure di un ministro che sedeva proprio nel comitato preposto a farne vivere il cuore, ovvero la valutazione degli impiegati. Ne' pare verosimile che la soluzione sia quella proposta dal ministro della funzione pubblica, cui sembra possibile «rimettersi al Parlamento», quindi lasciare indeterminata la questione. Tattica astuta, ma che risente di un significativo errore temporale: poteva valere per i governi democristiani, espressione della maggioranza parlamentare, non per il governo tecnico, per definizione privo di maggioranza politica, frutto di elezioni. Occhio, perché a sbagliare sui licenziamenti si finisce con l'essere licenziati.

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