L'insostenibile leggerezza dei partiti
Le maestre di un asilo di Rignano accusate anni fa di molestie sono state assolte; in Vaticano volano corvi e si arrestano maggiordomi; le nuove Brigate Rosse per i magistrati non sono terrorismo e l'Italia del gol è andata nel pallone giudiziario. E la politica? Non pervenuta. I partiti? In ritirata continua. In un Paese sempre più bisognoso di un dibattito pubblico decente, il consenso sembra aver bypassato i partiti per incanalarsi su nuove forme di protesta e proposta che però sembrano senza sbocco. I giovani del Pdl ora hanno deciso di «twittare» e rottamare il partito virtualmente, ma poi nella realtà cedono il microfono a quelli che comandano da sempre e sembrano accontentarsi di una comparsata. Nel Pd cambia il marchio, ma il prodotto è esattamente lo stesso. Alla fine, a chi non è cooptato, non resta che lo sfogatoio di internet. I vecchi non riconoscono la rete come strumento di partecipazione, ma non fanno nulla per ricostruire il forum dei partiti. In mezzo, il quasi nulla. O meglio, un Paese ad alto tasso di menefreghismo. Giorgio Napolitano ieri ha ammonito: la fuga dalla politica «sarebbe una catastrofe», il web è utile ma non sostituisce i partiti che «sono le cinghie di trasmissione delle istanze dei cittadini verso le istituzioni». In un mondo ideale, il discorso del Capo dello Stato non fa una piega ma, anche in questo caso, la realtà si incarica di riportare ogni parola al suo significato. Il web è diventato la palestra per scaricare tossine e solo in qualche caso è il motore per lanciare iniziative dove sentirsi vivi tra gli zombie. I partiti invece sono trasfigurati in un non luogo di discussione, nonostante sia pacifico che servano e debbano rigenerarsi. Si può andare avanti così? Certamente, perché quando pensi di aver toccato il fondo, quello è il momento in cui devi iniziare a scavare. E d'altronde il rumore di fondo, il messaggio chiave che arriva dalla politica non lascia grandi speranze: le parole sono la vita e non si può pulsare di gioia creativa se un governo si rivolge ai cittadini prima con la parola «spread» e ora con la «spending review». Siamo una colonia, a partire dal linguaggio.