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di Giancarlo Baccini Da ieri mattina presto il mio telefonino sprizza lacrime dall'auricolare manco fosse una fontanella.

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Ilaziali, che pure le lacrime dovrebbero averle esaurite da anni, condividono il pianto e lo scoramento con la rapidità e la virale pervasività consentite dai social network e dalla tecnologia. «Sempre a noi, tocca, sempre a noi!», è il desolato refrain che riecheggia nell'etere e sulla rete. Eh, sì. Perché è un fatto che da Giordano e Wilson, nel 1980, al Mauri di oggi, siamo noi il fil rouge che lega uno scandalo a quello successivo. E ogni qual volta emerge un po' del marcio di cui il calcio italiano si pasce da decenni è scontato che fra i pochi che saranno chiamati a pagare un prezzo l'unica presenza costante sarà la nostra, mentre i nostri compagni di ignominia saranno di volta in volta quelli in quel momento meno ammanicati o coloro di cui i potenti di turno vorranno sbarazzarsi per togliersi di torno uno scomodo commensale. Lo sdegno che inevitabilmente proviamo verso i furfanti che hanno sfruttato la nostra maglia per i loro sporchi affari non è in discussione, e onestamente non c'entra nulla con quanto proviamo nel profondo. Di certa gente bastava guardare gli occhi quando veniva intervistata in tv dopo una partita per capire di che stoffaccia fosse fatta. Periscano pure tra le fiamme dell'inferno e più soffrono meglio è. Il punto chiave è un altro. Il sentimento predominante non è lo sdegno ma lo sconforto esistenziale che ci viene dall'ormai consolidata consapevolezza che la Lazio non conta niente e non è mai contata niente. Dalla consapevolezza, anzi, che noi tifosi, sempre pronti a darle contro per primi, abbiamo addirittura dato un contributo decisivo a farne un capro espiatorio a disposizione, in modo facile e indolore, degli ipocriti di turno, sicuri di non rischiare la reazione delle vittime. Le altre squadre si salvano grazie ad amicizie, furbizie, occultamento di prove, militanza dei media fiancheggiatori. A noi ci saltano subito tutti alla gola e quando ci va bene e non ci mandano sparati in serie B come minimo ci tolgono a tavolino, per darlo a chi non ne era stato capace sul campo, ciò che noi sul campo ci eravamo presi. Voglio dire che il dolore che proviamo è accresciuto dalla coscienza del fatto che la colpa non è solo dei furfanti di turno ma è anche nostra, di noi che ci sentiamo troppo puliti per accettare, come le altre tifoserie, che la spazzatura venga nascosta sotto al tappeto. Ecco perché stavolta non c'è più neppure la rabbia ma c'è solo lo sconforto: perché sappiamo che non ci sarà niente da fare in quanto tutto è stato già deciso da mesi. Ce lo fanno capire non tanto le prove raccolte dagli inquirenti quanto la decisione di arrestare Mauri e il fatto che le agenzie di stampa si siano affrettate a dipingerlo come «il capitano della Lazio» quando il capitano della Lazio è Rocchi e lui ne è solo uno dei due vice (l'altro è Ledesma). Mauri non starebbe in galera se i pm di Cremona non fossero convinti che, tenendocelo, sarà più semplice fargli confessare qualcosa in più di quanto essi già non sappiano. Persino l'ostinazione con la quale Reja ha rifiutato le proposte di Lotito e se n'è scappato da Roma assume, a posteriori, una connotazione sinistra. Ecco, Lotito. È chiaro che, gira e rigira, il vero cavaliere di questa apocalisse biancoceleste è lui. È chiaro, cioè, che 112 anni di luminosa storia sportiva non avranno alcun peso quando l'attuale presidente di una delle decine di sezioni del sodalizio biancoceleste sarà chiamato a pagare il fio della presunzione con la quale si era illuso di essere talmente più furbo degli altri da poter fare come gli pare in un mondo le cui liturgie sono inviolabili per chiunque non abbia qualche santo in paradiso e/o, per ulteriore sicurezza, dei bravi avvocati. Il gradasso Lotito, purtroppo, non aveva e non ha né gli uni né gli altri.

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