Panico da Grillo per Bersani
È inutile chiedere nervosamente a Beppe Grillo, come ha fatto il deputato del Pd Francesco Boccia recependo gli umori dei suoi dirigenti, di «uscire dal computer», cioè dal suo blog. E di confrontarsi con i concorrenti e gli avversari usando i loro vecchi o tradizionali canali. Che sono, oltre ai comizi, le interviste, le tribune radiofoniche o televisive e i loro surrogati salottieri. Anche se del salotto i talk show hanno sempre meno, servendo spesso ai suoi ospiti per scambiarsi più insulti, e persino botte, che idee e proposte. Per gli insulti Grillo preferisce chiaramente il monologo, fonico o elettronico che sia, nella più o meno inconsapevole volontà forse di ridurne i danni. Le regole comunque le sta dettando lui, incoraggiato anche dai risultati che raccoglie al botteghino delle urne. Bisogna che se se ne facciano tutti una ragione. E ce ne facciamo anche noi giornalisti, che dobbiamo seguirlo, raccontarlo e commentarlo per mestiere. Smettiamola intanto di dargli del comico, come purtroppo ho fatto ancora qualche giorno fa contestandone le valutazioni dell'orribile attentato alla scuola Morvillo di Brindisi. A proposito delle quali mi era apparso, e mi appare tuttora, altrettanto orribile il suo ghigno elettronico, con quei richiami alla mafia, a Giulio Andreotti e ai vantaggi, o svantaggi, politici che avrebbero potuto ricavare dalla morte della povera Melissa partiti e candidati in corsa nei ballottaggi municipali del giorno dopo. Compreso il suo, di partito, anche se si chiama movimento e ricorda le insegne di una catena alberghiera. La nuova dimensione di Grillo è diventata ormai politica. E non più antipolitica, come è stata sino a quando è sembrata prevalere quella comica. Non a torto Pier Luigi Bersani gli ha appena dato del «capopartito», un po' volendo scansare gli insulti appena ricevuti e un po' consolandosi al pensiero che anche lui possa prima o poi - meglio prima che poi, naturalmente - condividere la sua principale disavventura. Che è quella di guidare una compagine di refrattari non dico alla disciplina, ma a qualcosa che almeno le assomigli. E risparmi agli elettori, almeno a quelli più fedeli, la disinvoltura e l'umiliazione di gridare vittoria anche quando si è presa una sonora sconfitta, come è accaduto a Palermo. Dove Leoluca Orlando, ora dipietrista, è appena tornato a fare il sindaco stracciando nel ballottaggio il candidato del Pd, dileggiandone il partito e i vertici ma guadagnandosi lo stesso il loro apprezzamento, espresso per giunta dalla titolare della massima carica: la presidente Rosy Bindi. Che non cesserà certo di essere per questo scambiata da Bersani per una bambola, sia pure stagionata, alla quale lisciare i capelli con la solita spazzola di Maurizio Crozza, rimasto per fortuna sua, e dello stesso Bersani, a fare il comico. Post-comunisti come il segretario del Pd e post-democristiani di sinistra come la Bindi sono curiosamente accomunati, e non a caso finiti nel 2007 nello stesso partito, dalla condanna a tirare la volata a qualcun altro in quell'interminabile giro della politica. Essi, per esempio, riuscirono nel 1993 ad appiedare l'odiatissino Bettino Craxi, che si salvò dalla galera solo ritirandosi in Tunisia e morendovi dopo qualche anno. Ma la tappa elettorale del 1994 fu vinta da un uomo per loro ancora più indigesto: Silvio Berlusconi. Con il quale hanno dovuto fare i conti per più di 17 anni: quanti ne erano passati, guarda caso, anche dall'elezione di Craxi alla segreteria del Psi, nel 1976, alle sue dimissioni. Caduto politicamente Berlusconi di suo, quasi suicida, sconfitto cioè più dagli errori propri e degli alleati che dai meriti e dalla forza degli avversari, vecchi e nuovi, costoro sono adesso chiamati a fare i conti con Grillo. E ne temono a tal punto la crescita, e in prospettiva l'alleanza con i loro ingombranti e sempre più esigenti alleati di oggi - da Antonio Di Pietro a Nichi Vendola, accomunati già ora a lui da un duro giudizio sul governo tecnico di Mario Monti - da rimpiangere sotto sotto il Cavaliere. E da osservare con crescente preoccupazione la crisi del suo partito e, più in generale, del suo schieramento. Per la cui salvezza auspicano, come mi è capitato di sentirmi dire da due autorevoli esponenti del Pd qualche giorno fa nella buvette della Camera, la conversione all'idea di una nuova legge elettorale a doppio turno, come quella francese. Ma senza il contesto istituzionale e le abitudini della Francia. Il contesto francese è il sistema presidenziale, o semi-presidenziale, in cui il capo dello Stato, provvisto anche di funzioni governative, viene eletto direttamente dai cittadini. L'abitudine è quella di un popolo che non ha bisogno di due giorni di tempo, come da noi, per andare alle urne. E con la nostra sempre più calante affluenza, indicativa da sola della crisi di credibilità che affligge la politica. O almeno i partiti che la sventolano come una bandiera.