Partiti alla deriva e tecnici senza consenso
Quelgoverno, indiscutibilmente, era, ed è, figlio di uno stato di necessità, ma non è riuscito a capitalizzare quel pizzico di credibilità che avrebbe dovuto venirgli dal fatto di essere composto, non tanto di tecnici, quanto piuttosto di uomini nuovi rispetto ai politici di professione. Si può dire di più: la sua immagine è andata, dopo una brevissima luna di miele con gli italiani, deteriorandosi sempre di più e ha finito per assumere la fisionomia di un Moloch burocratico o, se si preferisce, di uno sceriffo di Nottingham impegnato, notte e giorno, a inventare gabelle, a battere cassa e a derubare i cittadini. Il suo indice di gradimento scende di giorno in giorno. Ed è comprensibile che sia così. Il ricorso al fisco è la strada più facile per ricavare denaro contante, ma è anche la strada che porta, direttamente, al disastro del Paese perché deprime gli investimenti, impoverisce i cittadini, crea un clima di pericolosa tensione sociale. Ne costituisce una eloquente dimostrazione quello che sta accadendo. E che, pure, le cronache registrano rubricando come segnali pericolosi: dal lancio di ordigni esplosivi contro le sedi di Equitalia fino alla ripresa di attentati contro persone e istituzioni. Il governo tecnico, in sostanza, sta dimostrando di non essere in grado di affrontare in maniera seria la gravità della situazione. Le sue ricette hanno il sapore amaro dell'olio di ricino senza averne le qualità curative. E certe proposte quando non sono risibili e irritanti (è il caso, per esempio, della balzana idea di una imposta sui cani e sui gatti) sono poco più che dei placebo che servono a illudere - si pensi alla cosiddetta spending review - i poveri cittadini. I guai del governo tecnico sono però ben poca cosa rispetto al disastro, morale e politico, del quale i partiti stanno dando dimostrazione. Dalla eclissi della politica stiamo andando verso il tramonto della politica. Senza che, all'orizzonte, appaia nulla di nuovo, se non la prospettiva di una vera e propria dittatura tecnocratica. O, quella, non meno catastrofica, del caos istituzionalizzato. Il terremoto elettorale delle amministrative è più che eloquente. Il livello di astensionismo, il crollo dei partiti, il successo dei movimenti protestatari ed estremisti dicono molto, anche se la classe politica mostra di non aver capito poco o nulla di quello che sta accadendo. È davvero incredibile il fatto che, mentre tutto crolla e le macerie si accumulano, i partiti e i professionisti della politica continuino a ragionare secondo gli schemi vetusti di un passato morto e sepolto e continuino, al tempo stesso, a disegnare strategie, a cercare alleanze e proporre cambiamenti di look senza intaccare la sostanza, senza ripensare davvero se stessi e il proprio ruolo. È davvero incredibile che essi si illudano di affrontare il futuro come nel passato. E come se un futuro, rebus sic stantibus, sia davvero ipotizzabile. Certi nodi - il finanziamento dei partiti e le riforme, l'eliminazione dei privilegi e delle rendite di posizione, la riduzione degli sprechi e via dicendo - sono ancora lì, inestricabili, intoccabili e oggetto, solo, di logorroiche disquisizioni fini a se stesse. È deprimente registrare l'assenteismo dei parlamentari quando in aula si affronta la riduzione del finanziamento pubblico oppure quando si assiste a continui rinvii tattici per bloccare o allontanare nel tempo l'approvazione di provvedimenti sgraditi. La nostra classe politica dà l'impressione di partecipare a una festa danzante nei saloni di un Titanic prossimo allo scontro fatale con un iceberg che emerge dalle nebbie di uno sconvolgimento epocale. Il governo tecnico è diventato, per essa, un alibi che serve a coprirne la pochezza e l'inconsistenza e che - essa si illude - dovrebbe garantirle il tempo necessario per prepararsi a riprendere in mano la barra del timone. Ma è una illusione. E intanto il Grillo parla e salta.