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Berlino pagherà cara la guerra alla Grecia

Il Cancelliere Angela Merkel

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Com'è già accaduto più volte nella storia, il delirio di potenza della Germania rischia di tornare come un boomerang sui tedeschi stessi. All'inizio del ventesimo secolo l'economia teutonica era la più ricca e tecnologicamente evoluta d'Europa. Più dell'Inghilterra, che aveva l'impero, e della Francia, che aveva le colonie. Poi arrivo il Kaiser Guglielmo II, ed il cancelliere Bismark cedette ai suoi diktat di espansione coloniale in Africa, Asia e Oceania: il risultato fu la sconfitta nella prima guerra mondiale, l'umiliazione della perdita dei territori d'oltremare e dei danni di guerra, l'inflazione di Weimar e infine il nazismo. Ancora peggio due decenni dopo. Quando Hitler ordinò ai suoi generali, militarmente i migliori di tutti, di occupare l'Europa intera «dall'Atlantico agli Urali», alcuni come Rommel eseguirono, ma si suicidarono. Gli altri finirono a Norimberga. Ora che le guerre si combattono con il fiscal compact e lo spread, Berlino rischia la nemesi per la terza volta. Il falco Wolfgang Schauble, spalleggiato dalla Bundesbank, ha ordinato lo strangolamento della Grecia, e poco importa se questo porterà a un'ordalia nibelungica dell'intera economia europea, forse mondiale. E a lasciarci le penne saranno proprio le banche e le industrie tedesche: le prime tuttora esposte con Atene per 760 milioni di dollari (sei volte quelle italiane), le seconde che rischiano in caso di breakup dell'euro di trovarsi con un supermarco rivalutato del 20 per cento, e non tanto verso l'Europa ma verso il mondo, con buona pace dell'export verso la Cina, la Russia e le altre nuove potenze. Neppure Angela Merkel sembra più molto sicura del suo ministro delle Finanze. Lui incita a mollare Atene al suo destino, la Cancelliera dice il contrario. Frau Merkel è però sempre più isolata. Martedì sera George Osborne, cancelliere dello scacchiere britannico, e quindi collega di Schauble, ha detto chiaramente: «È in atto una aperta speculazione di alcuni Paesi dell'eurozona sul futuro degli altri, che pure hanno preso decisioni difficili per le loro finanze pubbliche. Che altro gli si può chiedere?». Non c'è bisogno di spiegazione. Ieri è sceso in campo Mario Draghi, rompendo il vincolo della Bce di tenersi a distanza dalla politica: «Noi vogliamo che la Grecia resti nell'euro» ha detto Draghi contraddicendo Schauble ed il presidente della Buba, Jens Weidmann, altro superfalco nonché numero due di fatto del board della Banca centrale europea. «Dal momento che nel trattato non è previsto niente riguardo ad un'uscita dall'euro - ha rincarato Draghi - ritengo che non sia un argomento su cui la Bce debba decidere». Risultato: il fronte dei contrari all'assolutismo tedesco incarnato dai panzer alla Schauble non è più formato solo dal solito Club Med, i paesi latini dalle mani bucate. Ci sono la Francia di Hollande ed il Fondo monetario; le preoccupazioni crescenti di Barack Obama per una recessione globale che potrebbe travolgere le aspettative di rielezione; perfino banche come la Goldman Sachs che ha sfornato un report che invita la Germania a farsi carico, oltre che dei vantaggi dell'euro, anche delle responsabilità. Un memorandum in quattro punti, che al primo recita così: «La Germania deve essere pronta a sottoscrivere una mutualizzazione del debito a livello di eurozona, quindi gli Eurobond». Nelle sue conferenze e negli incontri privati, Paul Volcker, ex presidente della Federal reserve e messo da Obama a capo del comitato di riforma della finanza post-Lehman Brothers, non si stanca di ripetere: «All'Europa servirebbe un Hamilton». Chi era costui? Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori americani, fu colui che impose gli US Bond, il cardine finora invincibile dell'economia statunitense, e quindi forza stessa degli Usa. E naturalmente il miglior piazzista del dollaro nel mondo, mentre all'interno è garante della tranquillità di piccoli e grandi investitori americani, dalle famiglie middle class alla Norman Rockwell fino alle corporation quotate a Wall Street. Ovviamente il dollaro è basato sul buono del tesoro americano, l'US Bond appunto, e quindi sulla mutualizzazione dei debiti di stati in perenne conflitto tra loro, dai costumi sociali agli interessi economici. Ma mai sul biglietto verde. La California è già andata due volte in bancarotta, New York una volta, il che determina il disgusto dei Tea Party e del Mid-West verso i liberal dissipatori di denaro pubblico della East Coast o di San Francisco, con annessi e connessi religiosi. Ma per difendere il dollaro gli americani imbracciano le armi, esattamente come per la loro libertà. Al tempo stesso gli Usa, pur avendo un debito pubblico tra i più alti del mondo, riescono a piazzare comunque i loro Treasury Bond, e senza svenarsi per gli interessi. Per questo motivo, pur tra scandali e crac finanziari, l'economia americana riesce sempre ad uscire dall'angolo: data per spacciata nel 2008, oggi cresce quanto la Germania, senza però flagellare né i suoi cittadini né gli altri. Tutto ciò spiega come mai il furore eurofobico dei tedeschi non è mai stato capito oltre Altantico (e oltre Manica). Gli americani non amano l'euro, ma dal momento che c'è non capiscono proprio perché mai i suoi principali custodi, i tedeschi, se ne siano serviti per complicare la vita agli europei, al mondo ed a se stessi. Forse proprio dalla pressione congiunta di americani, inglesi, francesi e paesi deboli dell'Europa verrà la sconfitta dei panzer germanici. Anche in questo caso, non sarebbe la prima volta. Altrimenti c'è solo il breakup, la fine dell'euro o la sua spaccatura tra Nord e Sud. Tutte le banche centrali, tutte quelle private e tutti i fondy ed i money maker hanno già fatto i conti in caso di ritorno alla dracma, alla lira, al franco e al marco. Noi italiani ci troveremmo svalutati di quasi il 30 per cento, ma gli unici a svegliarsi con una moneta più forte sarebbero i tedeschi. E non sappiamo se alla lunga il danno maggiore sarebbe per noi o per loro.

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