I cinque errori di Mario Monti
Non è tutta colpa di Monti. Causa del malessere dilagante e della relativa tensione sociale nel Paese è paradossalmente la natura stessa del suo governo: quella di un esecutivo tecnico che, in quanto tale, manca della legittimazione elettorale diretta ed è appoggiato da una maggioranza formatasi anch'essa senza un'investitura proveniente dalle elezioni. Il fatto che probabilmente il governo Monti e la maggioranza che lo sostiene non andranno insieme alle elezioni renderà anche impossibile un giudizio a posteriori da parte dei cittadini. Il governo insomma non renderà conto al Paese del proprio programma e del proprio operato né prima né dopo la conclusione del suo mandato. Insomma una situazione democraticamente delicata, soprattutto considerando come funzionano oggi le democrazie avanzate. Ma vi è di più. Mancando politicamente di una legittimazione popolare diretta e genuina e contando su una legittimazione indiretta (i rappresentati del popolo in Parlamento) distorta e contraddittoria rispetto alle piattaforme politico-programmatiche esibite agli elettori dai vari partiti che lo sostengono, il Governo si espone ad un doppio rischio. Il primo è che le misure adottate siano percepite come ancora più vessatorie dai cittadini perché essi non si riconoscono in chi le impone loro. Nelle democrazie del XXI secolo, il motto democratico delle grandi rivoluzioni liberali «no taxation without representation» ha acquisito un significato ancor più denso. Non si tratta solo di avere dei rappresentanti, ma di assicurare che chi tassa abbia una legittimazione politica direttamente riconducibile alla volontà espressa dal popolo. Il secondo rischio è che la debolezza dell'investitura popolare renda il Governo ancor più esposto alle pressioni estranee al circuito democratico: quelle delle burocrazie, quelle dei cosiddetti poteri forti, quelle del cattivo sindacato che cerca di massimizzare la rendita di posizione, in assenza di un interlocutore politico guardiano dell'interesse generale definito dalle elezioni. In mancanza della forza elettorale il Governo cede ad un abbraccio perverso, suadente, ma catturante, degli apparati e di altri stakeholders. Insomma, la natura tecnica del Governo, da forza, rischia di diventare il suo tallone d'Achille. Non c'è da stupirsi allora che le decisioni prese, poi, siano spesso affrettate, eccessive, lontane dai problemi della gente, oppure tardive, oppure mancanti. In questi sei mesi di governo si è spesso esagerato e l'entità dei provvedimenti varati è stata sovradimensionata rispetto alla misura ottimale, compromettendo, di fatto, il raggiungimento degli obiettivi. Tecnicamente: overshooting. Un esempio: la riforma delle pensioni. Bastava fare l'ultimo miglio e completare quella precedente con le opportune e necessarie transizioni, invece il governo ha calcato la mano, producendo trecentomila esodati e generando squilibri nei flussi in entrata nel mondo del lavoro, nonché serissimi problemi in tema di produttività dei lavoratori. Per non parlare della politica economica, che ha assunto carattere talmente restrittivo da causare effetti recessivi sull'economia reale. I nostri dati macroeconomici, come misurati dalla Commissione Europea nell'ultima rilevazione di venerdì scorso, si sono rivelati peggiori di almeno un punto percentuale rispetto agli altri Paesi dell'area euro. Le maggiori entrate che l'aumento (insopportabile) della pressione fiscale ha generato per le casse dello Stato sono state completamente assorbite dalla drastica riduzione dei consumi causata dalla recessione e dal clima di incertezza sulla politica di lungo periodo del governo. E poi la crisi: probabilmente non ancora capita fino in fondo. Con la conseguenza del non fare le cose giuste, del non dire la verità. Se non vuole ascoltare me, vada a rileggersi Barack Obama, Paul Krugman, Joseph Stiglitz, Olivier Blanchard, Romano Prodi, Giuliano Amano, Carlo De Benedetti, Sergio Marchionne...Vada a leggersi i segnali democratici più recenti in Nord Reno Westfalia o quelli in Grecia, dopo quelli in Francia e dopo le dimissioni di Jean Claude Juncker. L'andamento, ormai storico, di più di un anno di spread dimostra in maniera evidente che il problema è l'Europa. Il problema è la mancanza di una governance comune e forte. Il problema è la timidezza dell'Unione Europea nel (non) prendere decisioni. Il problema è la cessione di fatto (e volontaria!) della sovranità degli Stati Membri non a organi sovranazionali, istituzionalmente riconosciuti, ma a un Paese che si è imposto sugli altri, guadagnando, in termini di finanziamento del debito e di competitività, dalle debolezze altrui. Il problema è la mancanza di solidarietà e di meccanismi redistributivi; la masochistica distinzione tra Paesi rigorosi e non; la confusione ricorrente e strumentale sui concetti di rigore e crescita, che non sono opposti ma complementari. Il problema è il ruolo fortemente inadeguato della Banca Centrale Europea, che non svolge, per mandato, al contrario delle principali banche centrali del resto del mondo, una funzione di prestatore di ultima istanza. In questo contesto, il governo appare in affanno e all'inseguimento degli eventi, e la giustificazione con l'emergenza finanziaria e con le aste incombenti del rinnovo dei titoli del debito non è più sufficiente, rischia di diventare ridicola. Il problema certamente esiste, ma le prospettive sempre più negative sulla crescita, che in parte dipendono dagli errori dell'esecutivo, e l'allarmismo aggravano il giudizio dei mercati, non inducendo gli operatori a investire e a consumare. Tra l'altro, collocare 200 miliardi di titoli con un punto in più di tasso di interesse rispetto al livello attuale già alto implica un aggravio di spesa di 2 miliardi, ma il danno è senz'altro minore rispetto a quel punto percentuale di PIL in meno provocato dalla politica economica sbagliata. Sono cinque, in particolare, gli errori del professor Monti: 1. Allo stato attuale della recessione è sbagliato pensare di attuare sia ulteriori aumenti di tasse sia ulteriori tagli di spesa (mentre è corretto attuare rapidamente pervasivamente la spending review per riqualificare la spesa, ma non per ridurla oggi). L'idea che la riduzione della spesa non compensata da riduzione di tasse sia espansiva è sbagliata tecnicamente. Anche il Fondo Monetario Internazionale in recenti studi (Cottarelli 2012) ha rilevato come i moltiplicatori fiscali siano variabili a seconda della fase del ciclo. Pertanto, ulteriori riduzioni del deficit, per portarlo in avanzo strutturale, hanno effetti disastrosi sulla crescita e perversi anche sul consolidamento fiscale. Conclusione: il Fiscal compact non può rimanere così come è oggi. 2. Vi sono difficoltà evidenti nella gestione fiscale e in particolare nella gestione dell'IMU. Al di là delle stime sulla tassa e sulla sua incidenza tra le varie categorie di reddito, la confusione creata e ancora in atto ha generato una situazione di allarme sociale, con riferimento alla sua entità e alle scadenze, che ha inciso negativamente sulle aspettative delle famiglie, contribuendo a deprimere i consumi. Come è noto, la materia fiscale è molto delicata e va maneggiata con cura: non in modo approssimativo, con annunci e ripensamenti. L'effetto economico che si produce attraverso l'incertezza creata da una gestione dilettantesca è negativo soprattutto in una fase recessiva in cui le reazioni di breve periodo contano. Lo stesso vale per la turbativa sul mercato immobiliare. 3. Uguale effetto negativo ha l'incertezza creata intorno all'applicazione degli aumenti IVA. Per i seguenti motivi. L'annuncio, forse sì e forse no, degli aumenti IVA crea incertezza sulla pressione fiscale futura. Inoltre è sbagliato continuare a presentare l'aumento dell'IVA come aumento della pressione fiscale per ridurre il deficit. L'aumento dell'IVA era stato concepito, con il consenso di Confindustria e anche dei sindacati, per finanziare a parità di gettito la riduzione di altre tasse dirette, sia sulle imprese sia sulle famiglie. Si chiama svalutazione fiscale per gli effetti positivi che ha sui costi relativi della produzione interna rispetto a quella estera. È una misura attuata da altri Paesi ed è raccomandata da studi europei. Inoltre, nel brevissimo periodo l'annuncio chiaro dello «shift» tra diverse tasse può determinare un effetto positivo sui consumi immediati in quanto l'annuncio di un aumento IVA successivo anticipa i consumi previsti per il futuro. È questo che va fatto in recessione. La gestione del governo confusa e incerta crea solo apprensione con effetto contrario: posticipo dei consumi. 4. Riforma del lavoro e articolo 18. L'effetto anche simbolico della riforma si è dissolto in un impantanamento che ha creato, anch'esso, incertezza e confusione. Qual è il risultato? Sospensione delle assunzioni da parte delle imprese per capire ciò che accade, nonché probabile aumento dei licenziamenti da parte di chi teme un peggioramento rispetto alla situazione attuale causata dal nuovo regime. Anche in questo caso l'incertezza e la confusione, con l'inevitabile distorsione mediatica nelle due direzioni interpretative. Anche l'illeggibilità diretta del testo di riforma in discussione da parte degli operatori determina una situazione peggiorativa del ciclo. Ancora una volta sembra esserci disprezzo o incuria per ciò che riguarda la congiuntura, né sono tenuti in debita considerazione gli aspetti di isteresi dei guai creati nel breve periodo, che si ripercuotono poi nel medio e lungo termine, impedendo il dispiegarsi degli effetti positivi delle riforme. 5. E per le cose non fatte, un esempio per tutti: sul programma di dismissioni per incidere sul debito non si hanno notizie. Il governo ha dichiarato che i provvedimenti sono allo studio. Sappiamo che la materia è molto complessa, ma poiché i vertici e i tecnici dei ministeri implicati non sono cambiati e, a quanto si sa, avevano avuto incarico di studiare il problema anche dal precedente governo, non capiamo quanto ancora ci sia da studiare e quanto si tratti, invece, di un problema di decisioni. Anche questo incide su aspettative e credibilità. Non ce lo possiamo permettere. Non è neppure accettabile nel confronto con i governi precedenti, che non godevano della straordinaria maggioranza parlamentare attuale. Il Parlamento italiano ha ben fatto presenti tutte queste anomalie al governo nella risoluzione di accompagnamento al Documento di Economia e Finanza approvata il 26 aprile u.s.. Si rifaccia ad essa, professor Monti, ed è forse ancora in tempo per invertire la rotta. È importante per la credibilità del suo governo e ne ha bisogno il Paese. Un'annotazione maliziosa: valorizzi sempre e comunque il lavoro di chi lo ha preceduto, ne trarrà solo benefici: per la verità storica, e in termini di simpatia. E soprattutto, faccia in modo che la cena del 23 maggio, a Bruxelles tra capi di Stato e di governo sul tema della crescita, non si trasformi, per inconsistenza economica e politica delle decisioni che in essa verranno, forse, prese, nell'ultima cena dell'Unione. Mentre cresce, un po' dappertutto, la voglia di tornare alle monete nazionali.