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Tra passato e futuro, tra rigore e crescita, Mario Monti celebra a Firenze i 62 anni della Dichiarazione di Schumann coniugando i compiti, duri e difficili, imposti dalla ricerca di soluzioni della crisi, alle prospettive necessarie per la crescita.

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Sidice d'accordo, il presidente del Consiglio, a respingere «l'europeismo come religione» paventato da Luca di Montezemolo ed è sempre dalla platea dell'Istituto europeo internazionale che Monti riconosce utilità e necessità del dibattito, ma fissando saldi paletti. No a regole «irrazionali e non coerenti» come quelle che tengono a secco le imprese creditrici della Pa, e no a quella politica in cui «i leader finiscono per essere sempre più follower». Cioè a seguire l'onda emotiva dell'opinione pubblica, sollecitata dalla pressione dei media, e «a scappare dalle decisioni impopolari», quelle che invece «porterebbero benefici di lungo periodo». Una sferzata al mondo della politica che in conferenza stampa, in italiano dopo lo speech in inglese, Monti chiarirà «non essere rivolta alla realtà italiana» ma lettura della crisi europea, non tanto causata dalle sue istituzioni, «legittimate dal voto, come il Parlamento europeo» quanto da debolezze interni agli Stati membri. Del resto, alla politica casalinga Monti lancia messaggi altrettanto chiari, quando per esempio torna a ribadire quanti danni abbia causato l'abitudine «di decadi e decadi fa di inseguire il consenso sociale» a colpi di spesa e debito pubblico. Proprio quello per cui «oggi i nostri giovani non riescono a trovare lavoro». Ma è al «governo precedente» che il presidente del Consiglio arrivato a Palazzo Chigi dopo l'addio di Silvio Berlusconi riconosce di «aver fatto molto» nel campo delle riforme strutturali «sulle quali ora - ribadisce - l'Italia deve fare ancora di piu'». È ancora di Berlusconi, e di Prodi, che si parla quando si tratta di declinare i quarti di nobiltà del nostro Paese nella costruzione europea, non solo per il pantheon dei padri fondatori dell'Unione ma anche per fasi più recenti, quando sono state presidenze di turno italiane a segnare fasi di passaggio (significativo il riferimento al braccio di ferro con una delle poche donne capo di governo diventate simbolo in Europa, Margaret Thatcher) e quando l'Italia ha «mantenuto una continuità» di valori, dai governi Prodi a quelli Berlusconi, e nei diversi governi ancora». Su tutto, annota, c'è la «vigilanza attenta e entusiasta» del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ed è «grazie a lui che l'Italia potrà dare un apporto significativo alla costruzione europea». Dopo il quadro, lo scenario. La proposta. Come la «finestra» di 3 anni «per incoraggiare gli investimenti», altrimenti bloccati dai vincoli comunitari. Una «preferenziale» per la crescita che il presidente del Consiglio accompagna all'assicurazione che in un meccanismo del genere «non c'è proprio niente di elusivo della disciplina di bilancio». E che il rispetto dei patti non possa diventare un cappio lo ribadisce tornando sul tema caldo dei crediti delle imprese verso la Pa: «Per osservare vincoli di bilancio europei, essi sì definiti in modo non perfettamente coerente, si finisce per penalizzare imprese non pagandole tempestivamente». E allora «sarebbe paradossale se, per vincoli formulati non tanto razionalmente, ci si rifacesse sulle imprese distruggendo la capacità produttiva di imprese che poi devono chiudere». Poi di Patto di stabilità si parla quando conviene che «anche quello sia suscettibile di miglioramenti. Sono sicuro che, per tutti i sindaci d'Italia, per il governo sarebbe più facile introdurre miglioramenti a loro graditi se sul piano europeo riusciremo a far prevalere una logica più corretta».

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