Gli anomali Dioscuri dell'ex Pci
Passano gli anni, anzi i decenni, cambiano i nomi e i simboli del loro partito, ma Massimo D’Alema e Walter Veltroni, in ordine rigorosamente alfabetico, continuano ad essere gli anomali dioscuri dell’ex Pci. Anomali per via dell’anagrafe. Che dovrebbe impedirci di considerarli gemelli, avendo l’uno compiuto da poco 63 anni e dovendo l’altro compierne ancora 57. Ma sono sempre loro a impostare il dibattito nel principale partito della sinistra italiana, a dispetto degli altri che occupano formalmente il proscenio. Ma con i quali condividono, volenti o nolenti, la gara alla rottamazione impietosamente reclamata dal giovane sindaco di Firenze Matteo Renzi. Che è stato l’unico, peraltro, a farsi sentire in questi giorni per ricordare a chi fa festa nel partito per i risultati elettorali di lunedì scorso «i 91 mila voti lasciati sul terreno», ben più importanti di «qualche sindaco in più del passato», spesso di militanza vendoliana o dipietrista. Anche se il segretario Pier Luigi Bersani si dice «onorato» di averli «sostenuti», o subiti, come sarebbe forse più giusto ammettere. Sui risultati amministrativi D’Alema è saltato come un attempato surfista non solo per decretare vincitori e vinti, ma anche per indicare al suo partito la linea con la quale prenotare il traguardo delle elezioni politiche dell’anno prossimo. È la sua stagionata proposta di inseguire, o corteggiare, Casini. Con il quale egli si vanta di avere sperimentato e realizzato una buona alleanza nei principali comuni e province della sua regione elettiva, la Puglia, nonostante le difficoltà insorte due anni fa per la ricandidatura di Vendola a governatore. Casini, a dire il vero, non si sente per niente soddisfatto dei risultati di queste elezioni amministrative di maggio, tanto da avere già rinunciato al progetto del terzo polo. Ma D’Alema si è affrettato a consolarlo ricordandogli, in una intervista, che «l’Udc non è andata così male» perché «in diverse realtà, a cominciare da Genova, al ballottaggio vanno loro e non il Pdl». Forza quindi, Pier, non mollare. Per te, ha fatto capire D’Alema a Casini, il Pd può anche rinunciare all’alleanza, diventata peraltro sempre più ingombrante, con Antonio Di Pietro. All’Udc, o come diavolo si chiamerà il nuovo partito preannunciato dall’ex presidente della Camera, rimarrebbe solo da ingoiare il rospo di Vendola. Nei cui riguardi Casini non dovrebbe più porre «veti», ma indirettamente, tramite il Pd, solo «condizioni sul piano politico-programmatico». A questo ragionamento Veltroni ha praticamente opposto il giorno dopo il rimprovero di continuare a ritenere che «il sistema sia immobile» e «si possano spostare solo gli stati maggiori», sino a forzarne lo spirito e gli insediamenti elettorali. «Casini ha tutt’altro disegno strategico rispetto al nostro», ha detto senza mezzi termini Veltroni al Corriere della Sera, avendo capito che l’interesse politico dell’ex presidente della Camera è tornato ad essere quello di una ricomposizione dell’area di centrodestra, o moderata. D’Alema invece non solo continua a puntare sull’alleanza con l’Udc, ma lo fa pensando ch’essa possa, fra l’altro, supplire ad una inevitabile insufficienza riformistica del Pd, derivante dalla sua natura troppo composita. Che lui stesso d’altronde aveva tradotto l’anno scorso nella immagine dell’«amalgama mal riuscito» commentando una delle sue cicliche crisi interne. Invece «noi dobbiamo puntare su noi stessi», ha detto Veltroni, convinto -beato lui- che il Pd possa diventare «nel contempo più radicale e più riformista». È la solita, generosa confusione dell’ex sindaco di Roma. Che già nel 2010 da segretario del neonato Pd tentò di comporre queste aspirazioni finendo però per apparentarsi con Di Pietro. Che lo stesso D’Alema, d’altronde, da segretario del Pds aveva adottato nel 1997 facendolo eleggere senatore nel blindatissimo collegio rosso del Mugello.