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Sobrietà ritrovata nella continuità

Il premier Mario Monti

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Poco importa se sia stata solo farina del suo sacco o se sia stato consigliato dal regista del suo approdo a Palazzo Chigi. Che è notoriamente il capo dello Stato Giorgio Napolitano. Importa molto invece che il presidente del Consiglio abbia colto la prima occasione avuta a portata di mano, o di bocca, per tornare nel solco della "continuità" da cui l'altro ieri si era imprudentemente allontanato con pesanti giudizi prestatisi a diffuse, e pertanto non arbitrarie, interpretazioni contro il suo diretto predecessore alla guida del governo. Come se fosse colpa del Cavaliere, o prevalentemente sua, la crisi economica e finanziaria. E persino i suicidi che ne stanno contrassegnando penosamente gli sviluppi. La cui evocazione ha provocato una polemica interrogazione di molti parlamentari del Pdl che a questo punto si può forse considerare superata. In un salutare e opportuno ritorno anche alla sobrietà, che ne caratterizzò felicemente l'esordio nella sua esperienza ministeriale, il presidente del Consiglio ha ieri riconosciuto che "il governo precedente ha fatto molto in termini di riforme strutturali". Dalle quali non si può prescindere per fare cambiare passo al Paese, e non solo per rimettere momentaneamente a posto i conti e pareggiare il bilancio alla scadenza concordata con l'Unione Europea. Se errori si vogliono lamentare più o meno esplicitamente, anche in riferimento alla corrispondenza con il processo d'integrazione europea, essi appartengono a tutti quelli che, presi singolarmente o come governi, si sono succeduti in un lungo arco di tempo a Palazzo Chigi. Berlusconi, certo, ma anche "Romano Prodi e altri", ha detto Monti. Fra gli "altri" è forse il caso di ricordare l'ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri Massimo D'Alema. Che con la sua solita supponenza politica, costatagli già cara fuori e dentro il suo stesso partito, ha voluto ieri intervenire a gamba tesa nel dibattito sui risultati del primo turno di queste elezioni amministrative di maggio per impartire lezioni. Cominciando col dire che il Pdl è andato male non per l'impopolarità procuratagli dal responsabile appoggio al governo tecnico di Monti e alle sue pesanti misure fiscali, ma per "il fallimento del governo Berlusconi assieme alla Lega". Alla quale ultima -ha continuato a insegnare D'Alema, dimentico evidentemente di tutti i guai in cui i leghisti si sono cacciati da soli negli ultimi tempi tra lingotti, diamanti, diplomi falsi e ramazze ad uso interno- non è bastata la dura opposizione all'attuale governo per far dimenticare i danni di quello precedente, cui essa aveva partecipato. Come prova del nove di questa sua analisi sugli effetti del governo precedente, e non di quello in carica, D'Alema ha avuto la disinvoltura di chiedere: "Come mai noi, che sosteniamo l'attuale governo, vinciamo le elezioni e loro le perdono?". Evidentemente, al netto del pur importante bilancio, per carità, dei Comuni conservati e conquistati, o in via di conquista con i ballottaggi del 20 maggio, D'Alema ha rimosso dalla sua mente qualcosa che sul piano politico è forse ancora più rilevante della bandierine municipali. In due anni, nei ventiquattro principali Comuni in cui si è votato anche nel 2010 per il rinnovo dei Consigli regionali, il Pd ha perso il 29 per cento del suo elettorato. Che è stato, in particolare, il 32,8 al Nord, il 28,1 nelle cosiddette zone rosse, quelle cioè dove la sinistra è più di casa, e il 19% nel Centro-sud. Non mi sembra, francamente, un risultato esaltante, anche se migliore di certo rispetto al 54,4% dell'elettorato perso per strada dal Pdl e al 67,4 perduto dalla Lega. Solo l'Udc è riuscita a contenere le perdite del suo elettorato di due anni fa sotto il 10 per cento, fermandosi a -6,5. Che è la media ricavabile dal guadagno di Pier Ferdinando Casini del 32,2% al Centro-sud e dalla perdita del 43,7 al Nord. Se poi, al di là di queste percentuali, che pure hanno la loro importanza per misurare la temperatura ai maggiori partiti, si vuole riconoscere al Pd una certa tenuta complessiva in rapporto alle alleanze che ha saputo e voluto costruire localmente, e che l'hanno aiutato a conservare vecchie amministrazioni e a conquistarne di nuove, va anche ricordato che tali alleanze sono state prevalentemente contratte con la sinistra massimalista. Che, in concorrenza con Beppe Grillo, è contrarissima al governo Monti ed ha inferto al Pd autentiche umiliazioni in voti e uomini. Basta indicare una città per tutte: Palermo. Dove il dipietrista Leoluca Orlando si è vantato di avere sottratto oltre metà dei voti al Pd, già tentato di sostenerlo nel ballottaggio, pur di non entrare nel recinto degli sconfitti, scaricando il proprio candidato a sindaco, che pure è rimasto in gara per l'appuntamento del 20 maggio.

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