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Tramonta l'utopia di Pierferdy I voti di Pdl e Lega vanno altrove

Pierferdinando Casini

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Onore alla sincerità di Pier Ferdinando Casini. Il quale, pur avendo ceduto alla tentazione propagandistica di indicare la sua Udc, peraltro messa da lui stesso in liquidazione, come «l'unico partito, oltre ai grillini, che cresce» fra «le macerie» e nella «catastrofe» dei moderati, ha riconosciuto che «i voti di Pdl e Lega non li abbiamo certo presi noi». Noi, cioè, dell'Udc e, più in generale, del terzo polo disegnato nell'ufficio del presidente della Camera Gianfranco Fini dopo la rottura fra questi e il Cavaliere, o viceversa. In verità, che i voti in uscita dalla Lega non fossero intercettabili da Casini e dai suoi amici, era scontato. Stupisce solo che dalle parti dell'Udc qualcuno avesse potuto farvi affidamento, dopo tutte le polemiche avute con Silvio Berlusconi da Casini in persona, quando ancora gli era alleato, proprio sui rapporti con il Carroccio. E sul troppo peso che il Cavaliere era accusato di dargli nel centrodestra. Che i voti in uscita dal Pdl, da soli o al seguito dei parlamentari passati a Casini, o di quelli in procinto o tentati di farlo, potessero essere intercettati dall'Udc sembrava invece una prospettiva più logica. E invece si è rivelata anch'essa irrealistica. Anzi, è mancata per onesta ammissione dello stesso Casini. Dal quale resta a questo punto di sapere come possa anche sostenere che la sua Udc sia cresciuta, unica - ripeto - «oltre ai grillini». A meno che egli non abbia notizie, sinora sfuggite agli specialisti, di transumanze elettorali dal Pd di Bersani, o addirittura dall'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, al suo partito. Ma torniamo alla mancata intercettazione dei voti in uscita dal Pdl ammessa con comprensibile delusione dall'ex presidente della Camera. E cerchiamo di capirne le ragioni. La prima delle quali, secondo me, si trova proprio nello stato di liquidazione in cui molto frettolosamente Casini ha voluto mettere il suo partito, nella smania di crearne uno più grande, senza poterne indicare bene contenuti programmatici e tendenziali alleati. Per i primi egli si è limitato a riconoscersi incondizionatamente nell'azione del governo tecnico di Mario Monti, sino all'imprudente corteggiamento politico di alcuni dei suoi ministri. Quanto alle alleanze, egli si è barcamenato tra aperture altalenanti a destra e a sinistra. Gli elettori stanchi e delusi del Pdl non si sono fidati. Essi hanno preferito ingrossare le file degli astensionisti, o addirittura lasciarsi tentare dalle risate, dagli sberleffi e dalle invettive di Beppe Grillo, come i dati di alcune zone del Nord lasciano sospettare, piuttosto che scommettere su Casini. E riconoscersi nella sua cieca fiducia in un governo che - bisogna ammetterlo - ha perduto un po' dello smalto originario, pur con tutte le attenuanti che gli si possano o vogliano riconoscere, specie in un contesto europeo troppo dominato dalle visioni, se non vogliamo parlare di interessi, di una Germania unificata nel '90 a spese anche degli altri soci comunitari. Dalle urne del primo turno delle elezioni amministrative di maggio, da questo test che il capo dello Stato ha tenuto ieri a definire «piuttosto circoscritto», volendo probabilmente prevenirne o contenerne gli effetti sul governo in carica e sulla maggioranza assai composita che lo sostiene, il Pdl è uscito un po' come la Dc dalle elezioni amministrative dell'autunno 1993. Che furono le ultime della cosiddetta prima Repubblica. Angelino Alfano, insediato nella scorsa estate alla segreteria da un Berlusconi ancora fiducioso di poter salvare insieme il partito e il suo governo, è passato in pochi mesi dalla speranza di emulare l'Arnaldo Forlani del 1969 alla paura di finire come il Mino Martinazzoli di 23 anni dopo. Il Forlani del 1969 arrivò alla segreteria democristiana su sostanziale investitura del suo capocorrente Amintore Fanfani ma seppe camminare e crescere con le sue gambe, lasciando e recuperando la guida del maggiore partito italiano, con intermezzi governativi, sino alla staffetta del 1992 con Martinazzoli. Al quale in un solo anno toccò invece il compito ingrato di liquidare la Dc. Il cui ruolo e patrimonio elettorale però volle e seppe raccogliere Silvio Berlusconi, dopo le elezioni amministrative appunto del 1993, con l'operazione fulminante di Forza Italia. Casini aveva forse calcolato di potere imitare il Cavaliere raccogliendo con la sua Udc, o con il partito destinato a prenderne il posto prima delle prossime elezioni politiche, l'area moderata rappresentata dal Pdl. Ma l'obbiettivo si sta rivelando troppo ambizioso, se non è già fallito nelle urne di domenica e lunedì scorsi.

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