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L'attesa dei "poveri" per le amministrative

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Sistemazione delle urne elettorali durante la preparzione di un seggio

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Rispetto alla suspense in Francia, dove domenica si chiuderà la partita presidenziale fra Nicolas Sarkozy e François Hollande, appare l'attesa dei poveri quella in Italia per le elezioni amministrative. Che riguarderanno, sempre domenica prossima, meno di 10 milioni di elettori di quasi mille Comuni, di cui solo 27 capoluoghi di provincia. Eppure i partiti nostrani hanno attribuito a questo test un valore spropositato, contraddetto peraltro dal carattere disomogeneo che essi stessi hanno dato a questo appuntamento, fatta eccezione per la Lega, a dire il vero. Che ha voluto affrontare la prova nel suo Nord in orgogliosa solitudine, diventata rischiosissima nella bufera che la sta travolgendo tra inchieste giudiziarie sui suoi «sperperi», come li chiama Bossi, lotte interne e processi mediatici. Di cui i leghisti si dolgono per la loro sommarietà dimenticando quelli ai quali hanno partecipato in passato sventolando cappi a Montecitorio, o inneggiando ai suicidi. Fatta eccezione, dicevo, per la Lega, che ha voluto correre da sola, ma anche per il Pdl, che ha dovuto spesso subire una specie di ostracismo, al Nord proprio per effetto delle scelte leghiste, tutti gli altri partiti non hanno voluto o potuto affrontare questo voto in modo uniforme. Il Pd, per esempio, ha scelto di correre con vecchie e nuove componenti della sinistra, ma senza rinunciare a collegarsi, dove ha potuto, con il cosiddetto terzo polo. Che tuttavia non è riuscito, in questa ed altre circostanze, a rimanere compatto. È così accaduto che in funzione antiberlusconiana, per esempio a Palermo, gli amici di Fini abbiano preferito collegarsi a candidati di estrema sinistra piuttosto che sostenere un centrista con il Pdl. Di fronte a un quadro così complesso la prudenza avrebbe forse dovuto consigliare di non politicizzare il voto di domenica, magari riservandosi un più congruo tentativo solo con i ballottaggi di 15 giorni dopo. Ma molti hanno preferito scommettere già sul primo turno, smaniosi di misurare le loro pur esigue forze e di giocare poi al rialzo, o al ribasso, secondo le convenienze, le partite successive. E con gli occhi rivolti non solo ai ballottaggi locali del 20 maggio, ma anche, se non soprattutto, alla scadenze politiche nazionali. Per esempio, agli attesi passaggi parlamentari su riforme del mercato del lavoro, Costituzione, legge elettorale, finanziamento dei partiti e altro, sino alla stessa sopravvivenza del governo. Che dovrebbe arrivare alla scadenza ordinaria della legislatura, nella primavera del 2013, come reclama il presidente della Repubblica, ma potrebbe trovarsi anche sgambettato prima, come chiedono le opposizioni, vogliose di elezioni anticipate, ma forse vorrebbero, senza dirlo, anzi negandolo, pure pezzi della maggioranza. Le tentazioni di politicizzare queste benedette amministrative hanno ispirato persino analogie con le ultime elezioni locali della cosiddetta Prima Repubblica: quelle dell'autunno 1993. E così il Pdl berlusconiano viene da alcuni paragonato alla Dc di Mino Martinazzoli, che passò dalla debacle amministrativa alla sostanziale liquidazione nazionale nella primavera successiva. E il Pd di Bersani può apparire simile al Pds-ex Pci di Occhetto, che dalle urne locali del 1993 uscì talmente sicuro di poter replicare il successo nelle politiche da pretenderne e ottenerne l'anticipo alla primavera del 1994, uscendone però sconfitto clamorosamente da quel ciclone improvvisato con Forza Italia da Berlusconi. Un ciclone che Casini, alleato quella volta con il Cavaliere, mostra di volere ora imitare con il suo annunciato, nuovo Partito della Nazione. Ma allora il suo obbiettivo era di costruire il bipolarismo, adesso di abbatterlo. Ne passa quindi di differenza, anche al Quirinale tra Oscar Luigi Scalfaro e Giorgio Napolitano, per diffidare delle analogie e non inseguire le farfalle sotto l'Arco di Tito.  

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