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Sarkò insegna: destra e moderati vincono solo se stanno insieme

Sarkozy vota

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C'era Mitterand presidente e la Francia andava verso il primo governo di coabitazione quando Maurice Duverger, per descrivere il sistema francese, coniava la formula «quadriglia bipolare». A destra i gollisti con i centristi di Giscard; a sinistra i socialisti con un Pcf in declino. Se ci fosse Alexandre Dumas a descriverci il quadro «vent'anni dopo» o poco più, la formula potrebbe essere riproposta seppur con qualche correzione. Sulla destra la forza maggiore è rappresentata dal candidato gollista, ma lo junior partner si è spostato sull'ala estrema: Marine Le Pen con il suo 18%. A sinistra i socialisti di Hollande si confermano forza largamente maggioritaria, ma al posto di uno stanco Pcf c'è una nuova sinistra con l'appendice dei verdi, fermatasi al di sotto delle aspettative. Nella quadriglia c'è poi un intruso che aspirerebbe a dettare i ritmi della danza, se non fosse che a impedirglielo ci sono il sistema francese e il suo elettorato: è il centrista Bayrou, anche questa volta sotto il 10%, che attrae un voto sociologicamente di destra e lo iberna. La Francia si conferma nazione politicamente orientata a destra ma Sarkozy non può gioire anche se solo poco più dell'1% lo separa dallo sfidante. A parte il fatto che una parte del voto del Fronte Nazionale è prettamente anti-politico e non andrà mai né all'uno né all'altro dei due principali candidati, Sarkozy ha il problema di convogliare su di sé al secondo turno sia un voto estremista, con punte di vera e propria xenofobia, sia un voto di destra moderata. Né la sua impopolarità né, come vedremo, la sua politica europea, glielo consentono. Una lezione per l'Italia. C'è un'incredibile corrispondenza tra la distribuzione del voto francese e il panorama italiano che emerge dai sondaggi. Anche in Italia, come in Francia, i due vettori di centrodestra e di centrosinistra sono intorno al 25%. Anche in Italia, come in Francia, la forza dell'ala sinistra è intorno al 14% mentre - ed è questa la differenza più notevole - tra la destra di difficile integrazione transalpina (Fronte Nazionale) e il partito etnico-territoriale che si è sviluppato al di qua delle Alpi (Lega Nord), c'è una distanza di circa 10 punti. Considerando che in Francia il presidenzialismo tende a catalizzare il voto sui più forti, il primo insegnamento che il Pdl dovrebbe trarre è quello di non deprezzare il suo attuale score. È un buon punto di partenza per costruire un partito a vocazione maggioritaria, se il sistema elettorale aiutasse nell'intento. Il secondo elemento è che per raggiungere l'obiettivo il Pdl deve cercare di risolvere la discrasia tra i moderati collocati verso il centro e una componente di destra che deve avere il suo spazio ma non può egemonizzare il partito. In caso contrario, il rischio è il riproporsi della situazione francese: un Paese socialmente di destra che però consegna alla sinistra le chiavi del potere perché non è in grado di tradurre la forza sociale in consenso politico. È evidente, dunque, che il Pdl deve fare ciò che Sarkozy non ha fatto: rinnovare il suo profilo ideale, modernizzare la sua forma organizzativa, evitare di trasmettere all'esterno l'impressione di una stabilizzazione oligarchica per la quale l'unica cosa che conta è far parte dell'oligarchia. La variabile europea. Certamente Sarkozy ha pagato per la politica di rigore e per il sostegno alle strategie della Merkel. Ma c'è qualcosa di più. Quando nel 1962 De Gaulle chiuse la secolare controversia con i tedeschi, contava su una primazia strategica: la Francia aveva infatti la bomba atomica, la Germania usciva sconfitta da due guerre mondiali. Rispetto ad allora, la Germania si è unificata e la guerra fredda è finita. L'equilibrio si è spezzato e al di là degli slogan elettorali molti francesi temono che il loro Paese abbia perso la sua forza. Sia in economia che in politica estera, Sarkozy avrebbe dovuto sopire il timore che la Germania possa vincere la terza guerra mondiale - quella combattuta senza armi fagocitando l'Europa - creando un fronte mediterraneo con l'Italia e la Spagna. Non l'ha fatto e così ha perso la possibilità di attrarre i voti più profondamente gollisti che sono scappati verso destra dal recinto del suo partito. Si fa presto a dire Hollande. Se Hollande dovesse vincere, l'Europa ne uscirebbe ancor più destabilizzata. Teniamone conto prima di approvare acriticamente il fiscal compact. Sarkozy, bene o male, ha praticato una politica di rigore in linea con tutti i Paesi europei. Gli può essere addebitato di non aver arginato il controllo di Berlino contrapponendogli un'Europa mediterranea. Hollande, però, non mostra grande forza di innovazione. Propone più statalismo, il riabbassamento per certe categorie dell'età pensionabile, maggiori vincoli per imprese già gravate. E propone soprattutto di finanziare tutto ciò non attraverso un ripensamento globale del sistema, ma sulla base di una illusoria crescita che egli valuta molto più alta di previsioni già generose. Immagina, infine, un disimpegno a livello internazionale laddove invece servirebbe forse più impegno. Non è difficile pronosticare che se dovesse vincere avrà grandi difficoltà a governare perché allora sarà lui e non Sarkò ad essere contestato dall'estrema sinistra e dalla sinistra del proprio partito: si pensi solo alla lacerazione sui temi dell'identità e del multiculturalismo o alla proposte di Melenchon in campo economico. Sicché sarebbe prudente fermarsi e trarre un insegnamento per evitare alcuni errori, piuttosto che lanciarsi in spericolati endorsment dei quali presto ci si potrebbe pentire.

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