Giorgio Napolitano e il rigore dei partiti
Anche se l’anniversario non era di quelli a cifra tonda, che si prestano meglio alle celebrazioni solenni, com’è accaduto con le manifestazioni celebrative del centocinquantesimo dell'unità d’Italia, il presidente della Repubblica ha voluto metterci un impegno particolare partecipando ieri alla festa della liberazione dal nazifascismo. Che è poi la festa della libertà. Un impegno più che comprensibile e giustificato per almeno tre ragioni. Il primo motivo è che quella di ieri era la penultima occasione di questo tipo offerta a Giorgio Napolitano durante il suo mandato, che scadrà l’anno prossimo, poco dopo il sessantottesimo compleanno della liberazione. Il secondo motivo sta nella eccezionalità della situazione italiana, che ha imposto al capo dello Stato di raschiare il fondo, diciamo così, delle sue prerogative istituzionali, esplicite e implicite, per fare accettare dai maggiori partiti nei mesi scorsi, con la formazione del governo tecnico di Mario Monti, quella tregua che andava raccomandando inutilmente da troppo tempo. E che ha mostrato di non voler vedere ora compromessa da nuove tentazioni di elezioni anticipate. Egli ha avvertito più chiaramente di tutti - bisogna riconoscerlo - la gravità della crisi economica e finanziaria in atto dappertutto, e non solo in Italia. Ma qui particolarmente pericolosa per la enorme consistenza del debito pubblico. Il terzo motivo sta nella speciale sensibilità, direi professionalità politica di Napolitano. La politica, diciamo la verità, è stata la vita del capo dello Stato. Egli non può rimanere indifferente di fronte alla crisi in cui sono caduti un po’ tutti i partiti, ai quali pertanto il presidente della Repubblica ha sentito il bisogno di dare una mano. Lo ha fatto un po’ spronandoli ad una radicale autoriforma, che li salvi dal "marcio" e si accomuni ad altre riforme necessarie al Paese, come quelle della Costituzione e della legge elettorale, e un po’ contestando con estrema durezza l’antipolitica qualunquistica che si è così minacciosamente affacciata sulla scena. Ma alla quale i partiti, bisogna riconoscere anche questo, hanno fornito spesso troppi argomenti rinchiudendosi nei loro fortini, non essendo possibile parlare di fortezze, visto lo stato in cui si sono ridotti. Pensate un po’, i segretari dei tre maggiori partiti italiani che pure sostengono responsabilmente il governo di tregua in carica, cioè il Pdl, il Pd e l’Udc, nel rigoroso ordine della loro consistenza parlamentare, hanno impiegato due settimane, o giù di lì, per rendersi conto della impopolarità, oltre che dell’assurdità, del rifiuto inizialmente opposto alla ipotesi se non dell'abolizione, almeno di una forte riduzione dei loro cosiddetti rimborsi elettorali. Un’ipotesi da essi rifiutata per iscritto come "drammatica", quando di drammatica, o di drammaticamente scandalosa, c’era e c’è solo la sproporzione fra le spese effettivamente sostenute e documentate dai partiti e quelle ch’essi hanno voluto farsi rimborsare forfettariamente da quegli stessi contribuenti ai quali vengono imposti in questi tempi di crisi sacrifici, essi sì, drammatici. Una sproporzione che peraltro spiega, senza ovviamente giustificarli, gli sperperi e i furti che sono riusciti a consumare alcuni tesorieri, speriamo all’insaputa davvero dei vertici politici che se ne sono mostrati per primi indignati. E si sono offerti all’autorità giudiziaria a collaborare alle indagini, come nel caso della Lega, anche se Umberto Bossi, in verità, continua nella sua nuova veste di presidente del movimento a sentire puzza di "complotti". Ci sono volute quasi due settimane perché, pur rimanendo sul terreno delle parole, essendo i fatti ancora di là da venire con l’approvazione di apposite leggi, il Pdl sposasse la causa dell'abolizione del finanziamento pubblico, peraltro disposta dai cittadini con un referendum nel lontano 1993, e il Pd la smettesse di dire che i partiti si sono già ridotti abbastanza i loro approvvigionamenti statali negli ultimi tre anni. E riconoscesse giusto almeno il dimezzamento della rata di "rimborsi" in scadenza a fine luglio prossimo. Una rata peraltro contrabbandata per 100 milioni di euro e che si è poi scoperta di consistenza quasi doppia: 180 milioni, sempre di euro naturalmente. Quasi 360 miliardi di vecchie lire.