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Rischio democrazia se il problema resta solo lo spread

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Questavolta c'è di mezzo la democrazia, e la rivolta di elettori stremati da anni di austerità autolesionistica imposta dal centro d'Europa. E dove non sono riusciti i mercati potrebbero riuscire le urne, portando a governi più o meno esplicitamente anti-europei (contro questa Europa, più precisamente). La reiterata pressione su ogni spread disponibile (Italia, Spagna, Olanda, Francia) e l'allargamento dei credit default swap sui debiti sovrani indicano che i mercati sono tornati a votare pesantemente contro l'Eurozona. Il cui problema è rimasto insoluto dopo l'approvazione (che attende comunque ratifiche nazionali) del Fiscal compact e le due maxi aste triennali della Bce, la cui funzione era quella di prendere tempo, attendendo la politica. E la politica, per l'ennesima volta, ha completamente mancato l'obiettivo, adagiandosi su uno status quo che ci porta al collasso. Non solo: le aste della Bce hanno cristallizzato la crisi di quello che potremmo definire il sistema banco-sovrano europeo, fatto di circoli viziosi in cui il dissesto dei sovrani si riflette sulle banche, le quali comprano debito pubblico e si espongono a vendite da parte degli investitori internazionali. I cali di prezzo dei titoli di stato causano minusvalenze che minacciano i conti delle banche, aggiungendosi all'espansione delle sofferenze sui prestiti a famiglie e imprese, causata dalla profondità della recessione e dal credit crunch. Non è un caso che alcuni banchieri tendano ormai pubblicamente a rimarcare di aver smesso di comprare titoli di stato: vogliono evitare lo stigma dei mercati. L'approfondirsi della recessione spinge gli investitori ad abbandonare i titoli di stato della periferia, mettendo pressione rialzista sui rendimenti. Considerato che il nostro paese ha sinora completato circa il 30% del programma di emissioni pubbliche dell'anno, il rischio di tornare al drammatico novembre 2011 è più che mai attuale. Contrariamente a quanto credono i tedeschi, il rialzo dei rendimenti può avvenire anche in paesi che stanno tentando di risanare: non è sanzione per la dissolutezza fiscale vera o presunta, ma un enorme voto di sfiducia degli investitori contro la folle governance dell'Eurozona. Ciò accade perché la violenza del consolidamento fiscale imposto all'Eurozona causa e accentua la recessione vanificando le manovre correttive, come illustrato in modo ineccepibile nel corso dell'audizione alla Camera del presidente della Corte dei conti, Giampaolino. Chiunque pensi che, con strette dell'ordine di 5 o 6 punti percentuali di Pil in un biennio, sia comunque possibile ottenere crescita riformando i mercati del lavoro e dei servizi, ha capito assai poco di questa crisi. La stessa vulgata dell'inarrestabile aumento della nostra spesa pubblica è stata contraddetta dalla pubblicazione dei conti pubblici della Ue da parte di Eurostat, il 23 aprile. Il nostro paese, dal 2008 al 2011, ha visto una crescita dell'incidenza di spesa pubblica sul Pil anche sensibilmente inferiore a quella di altri, peraltro con un Pil nominale che restava fermo o addirittura si contraeva. Ma è impossibile risanare sotto le bombe di questa austerità malata. Se gli investitori globali torneranno a scioperare contro l'Eurozona, a nulla serviranno il fondo salva-stati e le munizioni del Fondo Monetario Internazionale, palesemente insufficienti. E peraltro, perché il FMI dovrebbe venire in soccorso dell'area economica più ricca del pianeta? Non servono misure "keynesiane", sia chiaro: anche rallentare il processo di consolidamento fiscale aiuterebbe. Ma ora la palla sembra passata al giocatore più ingombrante (e fragile) di tutti: la democrazia.

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