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di Francesco Damato Più gli si imbiancano i capelli, più gli si affilano i lineamenti, più gli si evidenziano le cavità oculari, quasi in uno sforzo continuo di scrutare l'orizzonte, più Pier Ferdinando Casini assomiglia anche fisicamente ad

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Un'attitudineche era, a suo modo, un'arte. Nella quale si sarebbe poi cimentato anche Arnaldo Forlani, del quale Casini fu tra i principali collaboratori nella seconda ed ultima esperienza di segretrario dello scudo crociato. E di cui il grande e comune amico Carlo Donat-Cattin soleva dire, in un misto di affettuoso sarcasmo e di convinto sostegno politico, che fosse «il Moro dei poveri». Di Moro, tuttavia, temo che Casini non stia imitando in questi giorni la prudenza, visti i suoi ripetuti tentativi di coinvolgere anche alcuni ministri tecnici nella trasformazione della sua Udc, avviata ufficialmente ieri con una "Costituente" di centro, in un nuovo partito di più ampie dimensioni. Di cui dovrebbero fare le spese il Pdl di Angelino Alfano, a destra, e il Pd di Pier Luigi Bersani, a sinistra. La sola possibilità di coinvolgere in questo progetto il governo, che si regge in Parlamento su quelle che Moro avrebbe definito «convergenze parallele» fra partiti così diversi come il Pdl e il Pd, impegnati a darsele e a dirsele di tutti i colori sino a pochi mesi fa e decisisi ad una tregua solo di fronte alla gravità della crisi economica e finanziaria, risulta che abbia allarmato anche il presidente della Repubblica. Che di quella tregua, peraltro auspicata con particolare insistenza proprio da Casini già nella scorsa estate, ben prima quindi delle dimissioni di Silvio Berlusconi da presidente del Consiglio, è stato insieme il regista e il garante. Delle preoccupazioni di Giorgio Napolitano per le strizzatine d'occhio che il leader centrista va facendo ai ministri tecnici si trovava ieri conferma nel resoconto fatto sul Corriere della Sera di un improvviso e lungo incontro tra il capo dello Stato e Mario Monti da Marzio Breda. Che ha una nota e affidabile dimestichezza con gli umori del Quirinale, dove egli ha colto e registrato «un certo fastidio» per la tendenza espansiva di Casini e per «le tensioni che ha immediatamente creato dentro la maggioranza». Dove non mancano altre situazioni e problemi di una certa criticità un po' per le perduranti altalene dei mercati finanziari, un po' per la recessione aggravata dalla crescente pressione fiscale, un po' per la campagna elettorale in corso a meno di un mese dal rinnovo di parecchie amministrazioni locali. Il guaio è, anche per il governo, e per chi ne ha più a cuore la sopravvivenza, e ne vorrebbe scongiurare la fine prima dell'epilogo naturale della legislatura, nella primavera prossima; il guaio è, dicevo, che dall'esito delle ormai imminenti elezioni amministrative, fra il primo turno del 6 maggio e i ballottaggi di quindici giorni dopo, dipenderà anche la possibilità che si attizzi ulteriormente, anziché ridursi, il fuoco che Casini ha finito per accendere nella maggioranza con il suo progetto di "Partito della Nazione". O come diavolo si chiamerà il movimento di cui ha voluto aprire il cantiere, visto che quel nome già non piace ad alcuni che dovrebbero concorrere all'operazione: per esempio, a Gianfranco Fini e a Francesco Rutelli. Che peraltro preferiscono prudentemente tenersi ben stretti i loro pur piccoli partiti partecipando ad una meno vincolante e impegnativa federazione. La fretta di Casini ha finito per complicare anche il lavoro di chi nel Pdl era in qualche modo tentato di dargli una mano nella costruzione di qualcosa di nuovo, destinato ad andare "oltre" i partiti attuali, come l'ex ministro Giuseppe Pisanu. Che, dopo avere raccolto con un documento ispirato a questo obbiettivo le firme di ventisette colleghi senatori del Pdl, ne ha dovuto registrare le preoccupazioni, se non le dissociazioni, di fronte alla coincidenza fra la sua diffusione e i tempi scelti da Casini per il varo della sua "Costituente" di centro. Una coincidenza che ha contraddetto lo spirito di una lettera nata e firmata da parlamentari convinti che di un'area centrale più larga il Pdl dovesse e debba rimanere "l'architrave", per rimanere all'immagine che sembra sia stata adoperata dallo stesso Pisanu in un incontro amichevole avuto con Berlusconi in persona. A Casini rischia infine di sfuggire una regola, chiamiamola così, dell'arte della scomposizione e ricomposizione sperimentata sulla propria pelle dal povero Moro. Che, detronizzato nel 1968 dai "dorotei" di Mariano Rumor e Flaminio Piccoli alla guida dei governi di coalizione con i socialisti, smontò e rimontò i rapporti fra e nelle correnti democristiane con l'obbiettivo neppure tanto nascosto di arrivare dopo tre anni al Quirinale. Dove invece salì, come soluzione di compromesso tra Fanfani e lui, il buon Giovanni Leone. Nel 1973, questa volta d'intesa con lo stesso Fanfani, egli promosse un'altra scomposizione e ricomposizione degli equilibri interni della Dc per la ripresa dell'alleanza nel frattempo interrottasi con il Psi. Ma i frutti li ricavarono Fanfani, tornando alla segreteria del partito, e Rumor tornando a Palazzo Chigi. Altra grande scomposizione e ricomposizione di equilibri politici, dentro e fuori la Dc, fu promossa da Moro nel 1976 per la formazione di un governo monocolore democristiano di tregua, o "solidarietà nazionale", appoggiato esternamente dai comunisti. Che però gli preferirono Giulio Andreotti alla presidenza del Consiglio, trovando politicamente più convenienti per loro, ancora alle prese con la realtà ingombrante dell'Unione Sovietica, i più solidi rapporti che lo stesso Andreotti aveva con il Vaticano e con gli Stati Uniti d'America. Lo stesso Moro se ne rese conto e accettò di fare il regista, più che il primo attore. Altri tempi, per carità, e per fortuna. Ma non per questo sono diventate scontate a beneficio della stessa mano la scomposizione e la ricomposizione delle aree politiche.

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