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di Francesco Damato Voci, per quanto non confermate sinora, danno Luciano Violante tentato da un'amara rinuncia all'incarico di negoziatore del Pd, con gli esperti degli altri partiti della maggioranza, sulla riforma della legge elettorale se

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Inrealtà, non è solo imbarazzo ma panico quello che Prodi è riuscito a creare con la sua durissima sortita nel Pd- ex Ds, ex-Pds, ex Pci, ma anche ex Margherita, e quindi ex Ppi e/o ex sinistra Dc. Mamma mia, quanti ex in questo «amalgama mal riuscito» che, secondo una definizione dell'insospettabile Massimo D'Alema, è il maggiore partito della sinistra italiana. Che non a caso è passato in soli quattro anni e mezzo per le mani di ben tre segretari: prima Walter Veltroni, poi Dario Franceschini, infine Bersani. Del cui profondo disagio, o altro, per l'attacco improvviso di Prodi, si aveva ieri una conferma nella censura adottata nei riguardi dell'ex presidente del Consiglio dal giornale storico, per quanto non più ufficiale, del Pci di una volta e delle edizioni successive. Non una notizia, neppure a una colonna, come si dice in gergo tecnico, si trovava ieri pubblicata su L'Unità a proposito delle critiche formulate da Prodi alla bozza di riforma elettorale di Violante. Non un rigo si leggeva nel pur ampio articolo di cronaca riservato dal giornale del Pd alla riforma costituzionale «targata Pd, Pdl e Udc» e approdata nella competente commissione del Senato, il cui complesso cammino parlamentare, fatto di un doppio passaggio tanto a Palazzo Madama quanto a Montecitorio, dovrebbe incrociare e condizionare il percorso della legge, questa volta ordinaria, di riforma del sistema elettorale. Anche se nessuno ha il coraggio di ammetterlo pubblicamente, nei piani alti, medi e bassi del Pd l'attacco di Prodi viene vissuto come un colpo forse irrimediabile al tentativo di ripristinare, pur con sbarramenti e premi di maggioranza alla prima o prime due o tre liste, il sistema proporzionale. Che affrancherebbe il maggiore partito della sinistra dalla famosa, ingombrante foto di Vasto, cioè dall'obbligo di un'alleanza preventiva, imposta dall'attuale legge pur di avere maggiori probabilità di successo elettorale, con i partiti di Nichi Vendola e di Antonio Di Pietro. Un'alleanza purtroppo analoga a quella che nel 2006 riportò Prodi a Palazzo Chigi ma non gli permise, per i suoi forti contrasti interni, di resistere neppure per due dei cinque anni della legislatura, che infatti si interruppe nel 2008. Proprio in virtù di questa negativa esperienza vissuta in prima persona da Prodi, a sua volta analoga a quella di dieci anni prima, fra il 1996 e il 1998, Violante si aspettava probabilmente maggiore comprensione per la propria riforma da parte dell'ex presidente del Consiglio. Che invece, testardo com'è, per giunta convinto di essere un tecnico e uomo d'esprit europeo non inferiore a Mario Monti, è rimasto fermo come un paracarro nella difesa dei suoi vecchi schemi di gioco elettorale e parlamentare. E non si è lasciato convincere nelle scorse settimane neppure dai ripetuti, e peraltro erronei, richiami statistici dello stesso Violante al deludente bilancio, in termini di «stabilità», dei «9 governi succedutisi nei 18 anni» della cosiddetta seconda Repubblica, cioè dal 1994 in poi. Dico «erronei» perché non sono stati 9 ma 11 i governi succedutisi da allora: 4 guidati da Silvio Berlusconi, 2 ciascuno da Prodi e da D'Alema, uno ciascuno da Lamberto Dini, Giuliano Amato e Mario Monti. Undici governi in 18 anni fanno una media sicuramente migliore di quella dei 47 governi succedutisi nei 45 anni trascorsi dal 1948 al 1993, ma pur sempre deludente, almeno rispetto alle attese createsi con l'esito maggioritario del referendum elettorale di diciannove anni fa. A me che gli chiedevo ieri alla Camera se l'ex presidente del Consiglio continuasse ad avere fiducia nelle alleanze da lui così mal guidate con il sistema maggioritario dal 1996 al 1998 e dal 2006 al 2008 pensando di poterle proteggere dalle loro intrinseche debolezze e contraddizioni succedendo l'anno prossimo a Giorgio Napolitano come presidente della Repubblica, il buon Giorgio La Malfa ha risposto rovesciando lo scenario, come in uno specchio. «Direi il contrario. Prodi continua a preferire il maggioritario - ha osservato La Malfa - non per governarlo meglio dal Quirinale ma forse per arrivarvi, perché solo con quel sistema, e non in un Parlamento eletto con il metodo proporzionale, potrebbe maturare una sua candidatura alla Presidenza della Repubblica». Altro motivo, probabilmente, di comprensibile paura nel Pd. E altrove, visti gli argomenti e la copertura politica che, volente o nolente, Prodi ha fornito con la sua sortita a quanti lavorano sopra e sotto traccia non per fare evolvere la delicatissima situazione politica attuale, ma per farla ulteriormente precipitare.

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