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di Sergio Magrini * Proviamo a semplificare la questione della riforma dei licenziamenti.

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18della legge n. 300 del 1970, e norme collegate) le esigenze di riforma generalmente riconosciute, e sollecitate dall'Unione Europea, sono queste: 1) rafforzare la c.d. «flessibilità in uscita», prevedendo per i licenziamenti illegittimi una sanzione soltanto indennitaria, ma certa, ed opportunamente adeguata e graduata, e riservando la sanzione di reintegrazione ai soli licenziamenti discriminatori o comunque illeciti; 2) dare maggiore certezza e prevedibilità, con una disciplina chiara e tale da ridurre la discrezionalità del giudice specie per i licenziamenti disciplinari: 3) ridurre il gap di protezione fra dipendenti delle imprese medio-piccole e grandi, e dipendenti delle micro-imprese; 4) attrarre così nuove assunzioni, specie da parte di imprenditori esteri. Vediamo come il d.d.l. di riforma del mercato del lavoro, all'esame del Parlamento, risponde a tali esigenze. 1) La sanzione della reintegrazione è di fatto confermata - oltre che ovviamente per i licenziamenti illeciti - anche per quelli c.d. disciplinari. Per essi, infatti, l'alternativa astratta di una sanzione risarcitoria, attraverso un'indennità fra 12 e 24 mensilità, è vanificata in concreto dalla imposizione della reintegrazione quando il giudice o accerti la «insussistenza dei fatti contestati» (cioè escluda la mancanza addebitata) o giudichi il licenziamento una sanzione sproporzionata (come è ora reso inequivocabile dal nuovo testo del d.d.l., contestato da Confindustria): il che è come prevedere la reintegrazione per tutte le ipotesi di illegittimità di un licenziamento disciplinare. Pertanto nulla cambia quanto ai licenziamenti per mancanze: salvo un po' di confusione aggiuntiva, e l'introduzione (virtuale) di una indennità di legge la cui misura massima potrà funzionare da parametro per le incentivazioni alla risoluzione consensuale dei rapporti di lavoro (un parametro probabilmente appetibile per le grandi imprese, ma non certo per le medio-piccole). La sostituzione della reintegrazione con la sanzione indennitaria, nella stessa misura, è invece effettivamente introdotta dal d.d.l. quanto ai licenziamenti intimati per motivo economico od oggettivo, cioè per sopravvenute necessità dell'impresa. Ma si tratta di una sostituzione soltanto eventuale, che può (e deve) essere esclusa dal giudice quando accerti la «manifesta» infondatezza, e non la sola «infondatezza», del motivo addotto dall'impresa: distinzione imperscrutabile. Per di più, la disciplina dei licenziamenti per motivo oggettivo è arricchita dal colpo di genio di re-introdurre per le relative controversie il tentativo obbligatorio di conciliazione, nell'ambito del quale l'imprenditore deve preventivamente «dichiarare l'intenzione» di licenziare: con la naturale conseguenza che il lavoratore preavvertito, se non è proprio uno sprovveduto, si metterà immediatamente in malattia, così impedendo l'efficacia del licenziamento. Il rafforzamento della «flessibilità in uscita» è, dunque, o puramente virtuale (licenziamenti disciplinari), o eventuale, incerto, e comunque più che compensato da ritardi ed intralci burocratici (licenziamenti per motivo oggettivo). 2) L'imprevedibilità dell'esito delle cause sui licenziamenti è aggravata dalla attribuzione ai giudici dell'inedito potere-dovere di scelta puramente soggettiva fra «infondatezza» e «manifesta infondatezza» della giustificazione di un licenziamento, ed accentuato dall'altra geniale idea di introdurre una procedura di accertamento sommario sostanzialmente inutile (perché le cause su licenziamenti hanno già di regola una corsia preferenziale), irrazionale (perché le cause su licenziamenti possono richiedere accertamenti complessi), lesiva di esigenze elementari di difesa per il datore di lavoro (non essendo previsto neppure un termine minimo fra la notifica del ricorso e l'udienza di comparizione), irrispettosa delle esigenze di studio preventivo della causa da parte del giudice. 3) Il gap fra dipendenti iper-protetti, e dipendenti sotto-protetti, è rimasto immutato: salvo che per quel Ministro la quale ha proclamato in una conferenza stampa che la riforma avrebbe esteso ai dipendenti delle piccole imprese la reintegrazione per i licenziamenti illeciti, scambiando così per una entusiasmante novità una regola espressa che esiste sin dal 1990. E per fortuna che sono tecnici. 4) Infine, stendiamo un velo sul potere di attrazione di questo testo prolisso e pasticciato in vista di nuove assunzioni. Questo è un testo già difficile da spiegare ad un imprenditore. Insomma, la proposta riforma dell'art. 18 può definirsi un piccolo capolavoro: all'incontrario. Abbiamo un suggerimento: se la riforma deve essere fatta così, teniamoci stretto il buon art. 18, stagionato da oltre quarant'anni. Anche per questo aspetto, sovviene il dialetto romanesco. Non quello del romanzo di Gadda, ma quello di un anonimo trasteverino, del quale si narra che - avendo sperimentato, dopo la caduta del fascismo, la neonata democrazia repubblicana - tracciò su di un muro la scritta: «aridatece er puzzone!». *Professore di diritto del lavoro nelle Università di Roma Tor Vergata e Luiss Guido Carli

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