Sul taglio ai rimborsi l'ennesima presa in giro delle forze politiche
Néall'impudenza. La classe politica ha perduto un'altra occasione per recuperare (posto, e non concesso, che sia possibile) un minimo di credibilità presso un'opinione pubblica sempre più lontana dal palazzo, sempre più disgustata, sempre più inferocita. Non ha avuto neppure la decenza di annullare il pagamento dell'ultima tranche di finanziamento pubblico, cento e passa milioni di euro, che avrebbe dovuto essere versata a breve. Si è limitata, questa classe politica vorace e insaziabile, a proporne il rinvio di qualche mese. E non ci sarebbe davvero da meravigliarsi se, prima o poi, saltasse fuori qualcuno che arrivasse a chiederne un adeguamento per rifarsi del ritardo. L'accordo del vertice ABC non ha toccato l'essenziale, cioè il finanziamento pubblico dei partiti. Anzi, ha preso le mosse dal presupposto che i partiti debbano ricevere finanziamenti pubblici, debbano attingere dalle tasche dei lavoratori. Si è limitato - bontà sua! - a discutere sulla necessità di renderne trasparenti i bilanci, di trovare un modo per controllare la gestione dei fondi e dare indicazioni sugli investimenti che queste associazioni private - ché tali sono, non dimentichiamolo, i partiti - possono fare delle generose elargizioni statali del pubblico denaro. Il risultato del vertice tocca i limiti del grottesco: nessun taglio ai fondi erogati ai partiti ma istituzione di una nuova authority per il controllo dei loro bilanci. Come dire, un prevedibile aumento di spese per garantire, in nome della trasparenza, che la mangiatoia continui a essere regolarmente riempita. Altro che stretta dei bilanci! L'intesa ABC è una presa in giro che dimostra come questa classe politica sia incapace di un gesto serio quando sono in ballo i propri interessi e i propri privilegi. Fanno ridere le parole di Bersani quando si ostina a difendere la casta dagli attacchi che le vengono mossi sostenendo di non voler accettare che «si continui a spargere fango su tutti» e lasciando intendere che l'abolizione del finanziamento pubblico implicherebbe la distruzione di un «concetto basico della democrazia». Come se non esistessero democrazie, e democrazie funzionanti come gli Stati Uniti, dove il finanziamento ai partiti è solo privato, legato al gradimento da parte degli elettori di un leader o di un programma ed è, per ciò stesso, espressione di una concezione concorrenziale della vita politica. In Italia il finanziamento pubblico è prima di tutto una tassa. Una tassa occulta, impropria e odiosa. È una tassa occulta perché non specificata nelle modalità di riscossione e nelle finalità. È una tassa impropria perché finisce nelle casse di soggetti privati la cui funzione pubblica è alquanto generica e aleatoria. E, quando questa tassa non si ferma nelle tasche degli amministratori delle varie forze politiche o dei loro sodali e viene tradotta in investimenti, contribuisce soltanto ad arricchire i partiti o le correnti di partito la cui unica funzione pubblica, ormai da tutti riconosciuta, è quella di fungere da veri e propri uffici di collocamento per iscritti e militanti ovvero da canali per ottenere prebende, nomine e rendite di posizione. È, infine, una tassa odiosa perché il suo versamento non si traduce in vantaggi per la collettività ma per individui singoli o per gruppi politici che non sono e non si identificano con gli italiani tutti. Che il finanziamento pubblico sia, come ho detto, una tassa occulta, impropria e odiosa lo dimostra ancora la bella trovata di far passare per «contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici» una percentuale, sia pur minima, dell'imposta sul reddito. Si tentò questa strada nel 1997 introducendo la possibilità di devolvere il 4 per mille dell'imposta sul reddito al finanziamento della politica e fu un fallimento totale, perché gli italiani, giustamente, furono sordi all'invito. Si torna ora a parlarne, naturalmente sulla base di un'aliquota percentuale più elevata e, se vi si giungerà, i risultati non saranno, prevedibilmente, migliori. Logica vorrebbe che i cittadini che non volessero contribuire «volontariamente» al finanziamento di partiti o movimenti politici con una percentuale dell'imposta sul reddito da loro dovuta avessero la possibilità almeno di detrarre quella percentuale dalla propria dichiarazione. Ma la casta non si muove, ben lo sappiamo, sulla base della logica. Si preoccupa solo dell'autoconservazione e della tutela dei suoi privilegi. Ancora una considerazione. Una tassa, quale che sia, dovrebbe avere un ritorno per la collettività quanto meno in termini di miglioramento dell'amministrazione o della gestione e fornitura di servizi. Che cosa è tornato agli italiani dal finanziamento pubblico, dal versamento cioè di questa «tassa sulla politica», come ho detto, occulta, impropria e odiosa? Solo il degrado dell'amministrazione, la crescita della corruzione, il peggioramento qualitativo di una classe politica il cui tasso di arroganza è cresciuto in maniera esponenziale. Anche per questo, a prescindere da ogni altra considerazione di merito, l'abolizione del finanziamento pubblico dei partiti è l'unica strada seria da imboccare. Se l'intesa ABC si tradurrà, come è probabile, in legge, scatterà con molta probabilità, e quasi automaticamente, la richiesta di un referendum abrogativo. E si può dare torto a coloro che, indipendentemente dai contenuti della nuova legge, lo chiederanno? No di certo.