Partiti con casse piene. Famiglie più povere
Prendiamo per ora solo i quattro anni di crisi. Nel 2008 i partiti italiani hanno ricevuto 503 milioni di euro di rimborsi. Hanno dichiarato spese per 136. Trecentosessantasette milioni sono rimasti nelle loro cassaforti non proprio blindate, affidati a tesorieri dalla mente aguzza e dal conto corrente veloce. Si tratta di un arricchimento netto del 456 per cento. Nello stesso periodo, come ha documentato la Banca d'Italia, il reddito delle famiglie italiane è diminuito del 6 per cento, quello degli individui del 7,5. La quota di famiglie giovani nella fascia di povertà è aumentata del cinque. Ora il Capo dello Stato chiede ai partiti una autoriforma, tanto più indispensabile mentre il resto del Paese è a stecchetto. Il presidente del Senato, Renato Schifani, e quello della Camera, Gianfranco Fini, rispondono invocando il primo «uno scatto d'orgoglio» delle forze parlamentari, il secondo un decreto «per il quale serve però l'accordo dei leader» dei partiti stessi. Con tutto il rispetto, le stesse promesse sono state fatte sulla riduzione del numero dei parlamentari, sull'abolizione delle province, sul taglio di indennità e benefici vari di deputati e senatori. Nessuna mantenuta. Sul primo fronte siamo ad un accordo di massima del format ABC (Alfano-Bersani-Casini), quando tutti sanno che in un anno di legislatura la riforma costituzionale ha zero probabilità di attuazione. Sul secondo, solo ieri è stato depositato un disegno di legge del governo che non abolisce affatto le province ma stabilisce solo che presidenti e consiglieri dovranno essere eletti da sindaci e consiglieri comunali delle aree amministrate. Elezioni di secondo livello, peraltro già contestate dall'Unione province italiane che lamenta «l'abbandono dei territori con la scusa della crisi e dell'antipolitica». E chiede al Parlamento di sanare il terribile errore: non dubitiamo che lo farà. Se ci sono due parole che si dovrebbero evitare sono proprio "crisi" e "antipolitica". La prima, quasi ce la fossimo inventata. La seconda, eterno alibi per non cambiare nulla e nascondere gli scheletri nell'armadio, finché non vengono giù come per il tesoriere della Lega, Belsito (un nome molto romano), e quello della Margherita, Lusi. Ma non ci siamo dimenticati del terzo fronte di lotta e di governo, il taglio di emolumenti e benefit dei parlamentari: qui la commissione incaricata di allinearli alla media dei sei maggiori paesi dell'euro ha alzato bandiera bianca dichiarando l'impossibilità di raffronti omogenei. Per Enrico Giovannini, presidente dell'Istituto nazionale di statistica e capo della commissione, la statistica pare dunque materia off limits. E per capirlo ci ha impiegato quasi un anno: l'arduo compito gli era stato affidato dal governo Berlusconi nel luglio 2011. Dunque di quale autoriforma stiamo parlando? Curioso che per raddoppiare la tassa sulle case basti un decreto, mentre ogni volta che ci si avventura nei territori della politica si debba chiedere agli interessati la cortesia di provvedere a se stessi. Come ha ricordato Mario Sechi, dal 1994 al 2008 i partiti, rispetto a spese documentate di 579 milioni, hanno ricevuto 2,25 miliardi dei contribuenti. Più di quanto costeranno nel 2013 le nuove misure sul mercato del lavoro, esattamente quanto incideranno una volta andate a regime, e per le quali dovremo sobbarcarci altre tasse: sulle case date in affitto, sulle auto aziendali, sulle imposte d'imbarco all'aeroporto. Non ne possiamo davvero più: è giunto il momento di chiedere indietro dei soldi alla politica. Soprattutto se questi denari pubblici risultano regali ai partiti per i loro comodi. Per ogni euro speso ne incassano, in questa legislatura, 4,5. Il record è appunto della Lega (un euro speso, 11 presi), a seguire i Democratici: un euro ogni dieci presi. Il Pdl si attesta sul rapporto di uno a tre. L'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, che tuona contro lo scandalo, incassa 3,75 euro per ognuno di spese documentate. Ma anche quando scriviamo "documentate", bisogna intendersi. Luigi Lusi, ex senatore del Pd ed ex tesoriere della Margherita autore di un imboscamento di 20 milioni, avrebbe sottoposto il bilancio ad un organismo interno che però non si è mai riunito. Chi aveva avvertito da anni puzza di bruciato, come il prodiano Arturo Parisi, fa sapere di essersene andato «sbattendo la porta». Già, ma perché non ha invece bussato a quella di qualche organo giudiziario? Impressiona anche l'oscillazione nel rapporto tra dare e giustificare. Nel '94, forse sulla scia del rinnovamento, si era partiti bassi (si fa per dire): la plusvalenza fu di "appena" il 130 per cento. Con le regionali del '95 eravamo già al 420. Il top è delle politiche 2001: circa il mille per cento. Poi un calo, fino alla nuova impennata di questa legislatura. Credere quindi che i partiti si autoriformino è quanto meno ingenuo. E, sia detto senza offesa, nello stesso richiamo di Giorgio Napolitano c'è qualcosa che non convince. Si invoca pulizia per evitare che i cittadini «si estranino con disgusto, il che può sfociare nella fine della democrazia e della libertà». No: la pulizia va fatta non per tutelare i politici dal disgusto, ma in primo luogo per tutelare noi contribuenti, visto che i soldi sono nostri. Del resto lo stesso capo dello Stato cita l'articolo 49 della Costituzione. Ma, come lo stesso Quirinale fa notare, quell'articolo stabilisce «il diritto dei cittadini di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Non parla affatto di finanziamenti. Che del resto, nella forma diretta, vennero aboliti con il referendum del '93, e prontamente sostituiti con i rimborsi elettorali. Dunque se il diritto diventa un abuso, e l'abuso un furto, non c'è altra via che togliere ai beneficiari la possibilità del coltello dalla parte del manico. Anche qui bisogna guardare all'estero: dove non mancano certo gli scandali, e tuttavia è giusto ricordare che il presidente tedesco Christian Wulff si è dimesso per un prestito agevolato al 4 per cento, ed una vacanza pagata da 800 euro. La Germania, dunque, ha contributi pubblici ai partiti di 133 milioni l'anno, rispetto ai nostri 285. La Francia di 80 milioni. La Gran Bretagna di cinque. Gli Usa di zero: le campagne elettorali sono finanziate da privati ed aziende, con obbligo (penale) di dichiarazione dei fondi versati, e di restituzione da parte dei candidati non eletti. In Italia si è sempre obiettato che quel sistema favorisce i ricchi. Eppure Bill Clinton, da governatore del povero Arkansas, riuscì a sconfiggere il ricchissimo George Bush senior, tra l'altro presidente in carica. Ma se non vogliamo il modello privato americano proviamo almeno ad avvicinarci a quello pubblico inglese: dove Margaret Thatcher, che era nata figlia di un droghiere, battè il laburista Lord Leonard James Callaghan, barone di Cardiff e cavaliere dell'Ordine della Giarrettiera. Ridateci i nostri soldi.