L'Europa e lo spettro del Titanic
Datutte emerge una conclusione: la causa del naufragio non fu l'iceberg, ma il Titanic stesso, la velocità e l'ansia dell'armatore, la White Star, di battere sulla ricca rotta per New York i rivali della Cunard. Soprattutto la famosa presunzione di inviolabilità: «Non c'è pericolo alcuno che il Titanic possa affondare» dichiarò Philip Franklin, vicepresidente della compagnia. «La nave è troppo grande, robusta e sicura: in caso di collisione solo qualche piccolo inconveniente potrà essere patito dai passeggeri». L'inglese White Star era in realtà di proprietà di John Pierpoint Morgan, il magnate americano che dette il nome alla JPMorgan, una delle banche simbolo di Wall Street. Per JP, che rinunciò alla crociera inaugurale perché ammalato, strappare il Blue Ribbon, il Nastro Azzurro transatlantico, alla Cunard che l'aveva conquistato con il Mauretania, era ben più di una gara di velocità: si trattava di aggiudicarsi le maggiori royalties del servizio postale britannico (per questo la nave era registrata a Southampton), e soprattutto il Titanic, tra i molti primati, vantava quello di essere il primo mezzo di trasporto sempre collegato con il mondo. Dalla sua radio si trasmettevano auguri e gossip, e una gran mole di ordini di borsa: primo esempio di connettività globale, ben prima del radar e di internet. In nome dell'estetica e del mito dell'affidabilità, i 16 compartimenti stagni "inaffondabili" portarono alle decisione di dimezzare le scialuppe, sufficienti per solo un terzo dei 2.223 passeggeri imbarcati. «Too big to fail»: dove abbiamo già sentito qualcosa del genere? Di fatto, ogni volta che qualcuno si è proclamato invulnerabile – non solo negli Usa, basta pensare in mare alla Bismark e alla Yamato – il mondo ha pagato dazio. Le regole di costruzione del Titanic, la sicumera di progettisti e comandante, ci ricordano l'Europa finanziaria di questi giorni. Con i dogmi imposti da Berlino, ottimi sulla carta ma temiamo inutili e dannosi contro gli iceberg della finanza globale. La navigazione del governo Monti si svolge eseguendo punto per punto quanto scritto da Jean-Claude Trichet e Mario Draghi nella lettera della Bce al governo italiano del 5 agosto 2011. Monti stesso, al di là dei suoi indubbi meriti, è a palazzo Chigi in ossequio alla dottrina Schauble, il ministro delle Finanze tedesco: nei paesi latini servono governi tecnici, la politica è un lusso per noi mediterranei ed un rischio per i contribuenti germanici. Eppure martedì lo spread è tornato oltre 400 punti, record dal 31 gennaio, e ieri il Tesoro ha piazzato a carissimo prezzo 11 miliardi di Bot: rendimenti più che raddoppiati per quelli annuali, triplicati per i trimestrali. Oggi vanno in asta cinque miliardi di Btp, mentre lunedì scadono 16 miliardi tra titoli e cedole. Se i mercati tornano a pretendere sul lungo termine i tassi di pochi mesi fa l'intera manovra che stiamo pagando a suon di tasse inizia a scricchiolare, i nostri sacrifici diventano inutili, e dal consenso per i tecnici si rischia di passare ad uno shock sociale che nessuno sembra in grado di governare. Monti i compiti a casa li fa: pareggio di bilancio a suon di tasse, specie sulla casa ed i risparmi; abolizione delle pensioni di anzianità; tagli alla sanità; addizionali record per comuni e regioni; liberalizzazioni e riforma del lavoro. Tutto indicato nella lettera della Bce. Certo, sugli ultimi due punti il governo non ha entusiasmato: ma siamo sicuri che ai tedeschi importi di taxi, panetterie e bizantinismi dell'articolo 18? Quella lettera, riletta oggi, ricorda ad alcuni le condizioni imposte l'8 settembre al governo Badoglio. A noi sembra invece il progetto del Titanic. E così il fiscal compact, il nuovo trattato europeo: la pretesa di imporre rotta e velocità nel mare infuriato della finanza di oggi. Il cui volume, non dimentichiamolo mai, è dieci volte il Pil mondiale. Ora, messa sotto il tappeto la Grecia, il focus si sposta in un battibecco tra Italia e Spagna. Palazzo Chigi ha detto che stiamo pagando i ritardi del governo spagnolo. Madrid ha risposto piccata. Un mese fa le parti erano invertite. Eppure la Spagna ha varato 40 miliardi di tagli, il più pesante intervento di austerity del dopo Franco; una legge che rende i licenziamenti più facili e meno costosi (altro che articolo 18); e adesso interviene sulla sanità. Il paese è però in recessione, la disoccupazione è al 24 per cento ed il deficit al 5,3. Noi, con tutto il rigore montiano, ci avviamo verso il 10 per cento di disoccupati, la crescita ed i consumi sono un ricordo, i mutui off limits, sulla pelle dei precari infuria la guerra politica. Buttati a mare i greci, tra italiani e spagnoli si lotta in terza classe per una scialuppa. Ma non sappiamo se la nave che ci è stata garantita come meraviglia del mondo sia un Titanic, e se la rotta fissata in alto loco non ci porti contro un iceberg.