Un'"autoriforma" che fallirà
La Triade - non già, sia chiaro, la celebre organizzazione criminale cinese, ma, più semplicemente, l'ABC della politica nazionale - è in fibrillazione. Alfano, Bersani e Casini, la Triade nostrana (absit iniuria verbis) insomma, sta cercando di correre ai ripari contro la bufera dell'antipolitica che rischia di travolgere partiti e uomini politici. I tre sono al lavoro per dare un «segnale forte» in tema di «regole sulla trasparenza e i controlli» dei rimborsi elettorali, cioè del finanziamento dei partiti, a una opinione pubblica, sempre più imbestialita nei confronti dei costi e degli sprechi oltre che dei privilegi della politica. Non sarà facile. Anzi. Come sempre, una «autoriforma» che parta dai partiti, o dai loro stati maggiori, è una impresa titanica perché, da che mondo e mondo, la rinuncia ai privilegi e alle rendite di posizione è un atto da eroi. E i nostri politici tutto sono meno che eroi. Arturo Carlo Jemolo, grande giurista e coscienza critica della democrazia italiana, sosteneva, a proposito degli innumerevoli (e sempre affossati) progetti di legge sulla riduzione del numero dei parlamentari, che non se ne sarebbe fatto nulla perché «il suicidio è una scelta individuale e non collettiva». Per il tema del finanziamento pubblico il discorso è analogo. Vediamo perché. Intanto ragioniamo sul motivo di questa accelerazione verso la riforma dei rimborsi elettorali. Il principale è la paura: paura delle prossime elezioni amministrative, paura dei forconi ovvero di possibili derive rivoluzionarie, paura di un probabile referendum abrogativo (promosso dall'Idv, che, pure, i finanziamenti pubblici non li ha mai, farisaicamente, rifiutati), paura dell'accrescimento del tasso di emarginazione della politica da parte del governo tecnico. Ma la paura non è mai una buona consigliera. Il grande moralista francese Michel de Montaigne confessava: «La paura è la cosa di cui ho più paura». E aveva ragione: c'è da aver paura della paura della classe politica. La quale, sempre più lontana dalla società civile, affronta il problema in maniera gattopardesca. Le dichiarazioni di questi giorni, lo dimostrano. Casini, per fare un esempio, sostiene di essere favorevole al finanziamento pubblico perché, in mancanza di esso, si correrebbe il pericolo di una deriva populista affidata ai miliardari che scendono in politica e «suonano il piffero». Inutile sottolineare come, dietro queste parole, vi sia, oltre alla malcelata intenzione di mantenere aperta la mangiatoia, un'altra paura, quella dell'ombra di Berlusconi. A Casini fa eco Alfano che, rivendicando la necessità di una maggiore trasparenza e di un controllo adeguato sui bilanci partitici, ribadisce la tesi che il finanziamento pubblico «è sempre stato un modo per affrancare i partiti dai circuiti tangentizi dei finanziamenti». Inoltre, Alfano toglie dalla naftalina e rispolvera la proposta di un meccanismo secondo il quale i cittadini potrebbero destinare il 5 per mille dell'imposta sul reddito al finanziamento di partiti e movimenti politici, dimenticando, peraltro, che questa strada fu imboccata già nel 1997 con esiti tutt'altro che soddisfacenti. La verità è che nessuno tocca il punto centrale della questione. L'ira dei cittadini, quell'ira che incrementa l'antipolitica e fa crescere la paura e le paure dei parlamentari e dei parassiti della politica, non riguarda solo la trasparenza dei bilanci e il corretto uso dei fondi ma anche, e soprattutto, il concetto stesso di finanziamento pubblico. Gli italiani, sempre più tartassati da uno Stato onnipresente che ne fagocita le risorse e sempre più impoveriti, non vogliono saperne di finanziamento pubblico, comunque denominato. Quanto meno per il fatto che esso, indipendentemente dalla trasparenza e dall'onestà di chi ne fruisce, è assimilabile a un'altra tassa. Una tassa occulta, ma non per questo meno odiosa. Si dirà. La politica costa. Sia pure. Ma la paghino coloro che la vogliono, la amano, ci vivono e ne vivono. Non coloro che la subiscono e ne sopportano le angherie. Il problema - quello che la classe politica (e per essa la Triade che la rappresenta) non vuole intendere - è proprio questo: l'unica riforma vera della legge sui «rimborsi elettorali» o, fuor di metafora, sul finanziamento pubblico dei partiti è l'abolizione, sic et simpliciter, del finanziamento pubblico e la sostituzione di esso con finanziamenti privati, naturalmente regolamentati e soggetti a un tetto, a vincoli, a controlli. Questa sarebbe una riforma liberale, moderna, che ridarebbe al cittadino anche un ruolo da protagonista. E favorirebbe la rinascita della politica e del senso civico. P.S. - Se i partiti volessero dare un segnale, sia pure piccolo, ma significativo della serietà e della onestà dei loro propositi di voler davvero mettere mano al problema dei finanziamenti pubblici avrebbero una buona occasione, un'occasione da cogliere al volo: rinunciare a incassare i cento milioni e passa dell'ultima tranche di fondi pubblici loro dovuti sulla base della legge vigente. Lo faranno?