Il Pd e gli indagati: impariamo daBossi
Diciamoci la verità: dopo quasi una settimana passata a bastonare la famiglia Bossi e il suo Cerchio Magico affiora un po' di noia. Mista a fastidio e puzza di ipocrisia. Perché il Trota avrà pure commesso le sue nefandezze, Umberto Bossi sarà pure stato al corrente di tutto (ma questo lo devono ancora dimostrare i giudici) però almeno hanno avuto il buon gusto di mollare tutto e dimettersi. Cosa che tra i politici non accade quasi mai. Sarà per questo che nel centrosinistra, e in particolare tra i Democratici, è tornata a farsi sentire proprio in questi giorni la richiesta di fare pulizia su su due casi che nel Pd sono ormai diventati nervi scoperti: quello di Filippo Penati, un passato da presidente della Provincia di Milano ed ex presidente del consiglio regionale Lombardo, e quello di Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita. Nessuno dei due ha lasciato l'incarico, né di consigliere regionale né di deputato. Né tanto meno hanno pensato di dimettersi il leader del Partito Democratico – che pure ha avuto Penati nella sua segreteria – né Francesco Rutelli che di Lusi, fino a quando non è esplosa l'inchiesta, si fidava come di un fratello. Eppure le accuse sono pesanti in entrambi i casi. Il primo è inseguito da avvisi di garanzia, il pm ha chiesto il suo arresto ma il Gip glielo ha negato. L'ex sindaco di Sesto, secondo i magistrati, avrebbe messo su un sistema decennale, incassato tangenti per l'area Falck proprio nella cittadina che ha amministrato e defraudato la provincia di Milano al tempo da lui presieduta, acquistando a prezzi esorbitanti l'autostrada Milano-Genova (la Serravalle), pur di dare una mano alla cordata che voleva acquistare una banca – la Bnl - per il partito. Penati però ha orecchie sensibili e ha capito che nel partito rimonta l'onda di chi gli chiede di fare un passo indietro. Così ha spiegato il motivo per cui non ha ancora lasciato il suo posto – e relativo stipendio – alla Regione: «A proposito della richiesta di dimissioni da consigliere regionale ricordo che mi sono dimesso prontamente dalla carica di vicepresidente del Consiglio, ho chiesto di essere esonerato dal partecipare a commissioni d'inchiesta per separare la mia vicenda giudiziaria dalla vita dell'istituzione e ho lasciato tutti gli incarichi nel Pd». «Ad oggi - aggiunge - la Procura della Repubblica di Monza ha chiesto una nuova proroga delle indagini di altri sei mesi che sono peraltro in corso da quasi due anni. Non è neppure ancora stata presentata la richiesta di rinvio a giudizio, che mi consentirà di stare per la prima volta davanti al giudice dell'udienza preliminare per far valere le mie ragioni. Ciò che chiedo oggi e ho chiesto più volte è di poter essere sottoposto al più presto a processo». Luigi Lusi, al contrario di Penati, è stato espulso dal Pd. Ma non per questo si è dimesso da deputato. Eppure le accuse contro di lui non sono leggere: avrebbe sottratto decine di milioni alle casse di un partito ormai inesistente e ha raccontato di avere versato molto denaro a Fondazioni che facevano riferimento a Francesco Rutelli. Il quale, però, si è subito tirato fuori da questa storia: non si è dimesso ma ha disconosciuto l'uomo che per anni ha tenuto i cordoni della borsa del suo partito. Però Lusi ha fatto capire che in realtà quelli che gli stavano intorno non potevano non sapere, perché quei soldi – spariti – sono serviti a molte persone e per molti affari. Due casi sui quali l'insofferenza che in questi mesi è corsa sotterranea nel Pd ora inizia a salta fuori. Insieme al fastidio di dover ammettere che almeno due tra gli odiati nemici leghisti quando sono stati beccati con le mani nella marmellata hanno saputo far meglio di loro. Fastidio, ad esempio, che si sente nelle parole del sindaco di Firenze Matteo Renzi, che pure di Rutelli è stato il figlio prediletto ai tempi – belli – della Margherita. «La famiglia Bossi si è dimessa – ha commentato ieri – e questo era il minimo, mentre Lusi ad esempio, no». Certo il giovane sindaco fiorentino e «rottamatore» del partito dimentica che, almeno a leggere una parte dell'inchiesta, l'ex tesoriere avrebbe finanziato anche la sua campagna elettorale. Aspetto che, ovviamente, Matteo Renzi ha provveduto a smentire. Ma l'insofferenza e il disagio tra i Democratici. Si vede sui messaggi su Facebook, su twitter, dove i militanti chiedono un sussulto di dignità. Mario Adinolfi, ad esempio, uno che del Pd è stato tra i primi sostenitori salvo poi andarsene per delusione, sul suo profilo scrive: «Bossi non è indagato e si è dimesso da consigliere regionale (cioè rinuncia ai 12mila al mese). Penati è indagato e non si è dimesso». E ancora: «Lusi pagava le associazioni del presidente e del vicesegretario Pd, Penati non si dimette, Bersani non risponde alle 5 domande. Tutti uguali». Ecco, è proprio quel «tutti uguali» che guasta l'umore dei militanti del Pd. I quali, per salvarsi, devono aggrapparsi a quel «non mi dimetto» lanciato ieri dalla leghista Rosi Mauro davanti alle richieste, esplicite oltre che pressanti, del suo partito. Sì, anche la Lega ha i suoi Lusi e Penati.