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di Massimiliano Lenzi Quando Eugenio Scalfari - correva l'anno 1993 - gli appiccicò la definizione di "barbaro" Umberto Bossi non se la prese poi tanto, annotando però che quelli della Lega son «barbari che devono diventare generali dell'eser

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Diciamopure sode. «Può anche darsi - disse - che una volta tanto servano a qualcosa, ma dubito che chi è abituato a ciance astratte si trasformi di colpo in lottatore. È un carro da guerra, la Lega, non un carro allegorico. Non è facile saltarci sopra». Tanto meno per gli intellettuali «salottieri e imborghesiti» con «il cuore che non funziona e il fegato ingrassato. Si infilino nel tunnel di Occhetto (allora leader del Pds ndr) - suggerì il Bossi - nel tanfo in cui possono tranquillamente riconoscersi. Perché non avranno spazio da noi. Non finché ci sarò io, che vengo dalla gavetta, sono un uomo di strada e viaggio a cavallo come i miei avi, con la carne cruda tra il sedere e il cavallo». Diciannove anni dopo, tutto pare mutato ed un contrappasso, al di là delle attuali vicende della Lega e delle indagini della magistratura, sembra svelare la grande debolezza leghista, di un partito che alle origini rivendicava la propria rozzezza come tratto e parte integrante della propria identità. Una debolezza piccolo borghese, quasi primo novecentesca: l'ossessione per la laurea. Sul blog di Renzo Bossi, fermo al 31 dicembre scorso, il giovane consigliere leghista (che da qualche tempo era pure responsabile dei media padani), figlio del Capo, sotto la voce chi sono, accanto alla dicitura professione ha scritto: studente. Viene in mente Totò: «Perché il giovanotto è studente che studia, che si deve prendere una laura...». Peppino: «Laura». Totò: «Laura. Che deve tenere la testa al solito posto, cioè...». Peppino: «Cioè». Totò: «Sul collo. Punto, punto e virgola, un punto e un punto e virgola». Peppino: «Troppo roba». Totò: «Lascia fare, che dicono che noi siamo provinciali. Che siamo tirati». Chissà se l'Umberto Bossi l'ha mai visto e ascoltato il celebre dialogo della lettera nel film Totò, Peppino e la malafemmena, con quella preoccupazione degli zii per il nipote che deve laurearsi e loro temono si distragga dietro ad una donna. Se non l'ha visto dovrebbe guardarselo perché nel 2012 racconta di una mutazione profonda. Nell'Italia del Novecento e dei film di Totò la laurea era strumento di mobilità sociale, sfida per le classi più umili che ambivano a migliorare la vita e la posizione dei propri figli a costo di grandi sacrifici economici e quotidiani. Richiedeva fatica arrivare ad una laurea, non si prendeva per corrispondenza e neppure all'estero, perché per quelle servivano soldi e in pochi li avevano. E poi vuoi mettere l'autorevolezza delle Università italiane. Si doveva studiare, e parecchio. Le uscite di sicurezza non c'erano e se uno finiva fuori corso, allora via, a laurà - come dicono su al Nord - perché il mondo va così e one chanche, one choice. Una laurea, Umberto Bossi, non l'ha mai presa ed oggi che quel pezzo di carta non si nega quasi a nessuno (ed infatti ha perso, almeno in parte, la spinta di motore per la mobilità sociale e il cambiamento, sconfitto dagli eterni familismi italiani), diventa illuminante rileggersi di quando invitò tutti i parlamentari del Carroccio a laurearsi. «Tutti i deputati che non sono in possesso della laurea in giurisprudenza sono pregati di iscriversi al corso di laurea in giurisprudenza a partire dal prossimo anno». Era scritto così su una sorta di circolare interna che il leader del Carroccio aveva fatto affiggere al gruppo della Camera. Era il maggio del 1993, in piena Mani Pulite. «L'obiettivo - spiegava il capogruppo Roberto Maroni - non è quello del titolo di studio fine a se stesso ma è legato alla preparazione, alla competenza, all'aggiornamento. Quindi, l'importante è frequentare i corsi». Pare lo dicesse pure un certo Pierre De Coubertin, quel che conta «è partecipare».

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