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La "passione" di Umberto Non solo politica

Umberto Bossi, della Lega Nord

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Le circostanze, ancora una volta curiosamente dettate dai tempi più della giustizia che della politica, più dalle Procure che dal Parlamento o dai partiti, più dai magistrati che dagli elettori o dai militanti, hanno voluto che Umberto Bossi si dimettesse dalla guida della sua Lega Nord nella settimana santa, per i cristiani. Quali sono in grandissima parte i leghisti, a dispetto dei riti celtici celebrati dallo stesso Bossi per fare del suo un popolo di genere particolare, comunque diverso da quello italiano, cui i padani sarebbero stati iscritti d'ufficio solo dai capricci o dalle prepotenze della storia. La settimana santa si chiama anche di passione. E senza volere essere naturalmente blasfemi, senza voler paragonare l'imparagonabile, senza volere mischiare sacro e profano, di passione Bossi ne ha avuta tanta, intesa sia come attaccamento o inclinazione, sia come sofferenza. Passione per la politica, per il suo movimento, per la sua "gente", per gli amici più stretti, quelli del "cerchio magico", per la sua famiglia. Che temo gli sia però costata come sofferenza più di tutto e di tutti in questi ultimi giorni o tempi, in particolare da quando ne ha scoperto forse debolezze e frequentazioni che gli sono costate quel gesto estremo che in politica possono essere le dimissioni. Alle tentazioni della rinuncia Bossi seppe e volle resistere nel 2004, quando si ammalò gravemente perdendo una forza fisica solo in parte recuperata successivamente, ma non ha voluto o potuto resistere ieri, mentre montavano sia le notizie sulle indagini giudiziarie arrivate a un palmo, diciamo così, anche da lui e dai suoi familiari, sia il disorientamento e le proteste nella base del partito, ben al di là dell'area già vasta del dissenso politico interno sempre più chiaramente portato a riconoscersi o a scommettere sulla leadership emergente dell'ex ministro dell'Interno Roberto Maroni. Che deve tuttavia dividere adesso la reggenza del partito, peraltro in attesa anche dei risultati delle sempre più difficili elezioni amministrative di maggio, con l'ex ministro Roberto Calderoli e con la deputata Manuela Dal Lago. Ci si era tanto abituati alla resistenza politica di Bossi, ai suoi metodi persino disinvolti e spesso anche villani di liquidare le critiche e gli attacchi dentro e fuori il partito, di cui ora è diventato un presidente più onorifico che altro, per quante illusioni possano coltivare i suoi irriducibili e autentici sostenitori, che la notizia delle sue dimissioni da segretario e leader effettivo della Lega è arrivata come una bomba nelle redazioni dei giornali e nei palazzi della politica, pur svuotati un po' dalla pausa pasquale. Ma, in fondo, anche in questo passaggio politicamente estremo della sua trentennale avventura politica Bossi è riuscito a rimanere fedele alla sua imprevedibilità. Impreviste, per esempio, furono negli anni Novanta sia l'adozione di Gianfranco Miglio come ideologo della Lega, vista la distanza abissale di cultura fra i due, sia la successiva decisione di liberarsene. Imprevista fu la sua decisione di allearsi politicamente nel 1994 con l'esordiente Silvio Berlusconi, solo pochi giorni dopo avere mandato Maroni a fare un accordo con Mario Segni, che era in corsa per Palazzo Chigi con l'aiuto della pur morente Dc guidata da Mino Martinazzoli. "Togliti di mezzo chè debbo sparare" a Segni e ai democristiani, gridò Bossi a Maroni in quella occasione. Imprevista fu la sua campagna elettorale nel 1994, quando il leader leghista non solo dileggiava i missini di Gianfranco Fini, che pure erano alleati con il Cavaliere da Roma in giù, ma lo stesso Berlusconi. Il quale era nel Nord il suo alleato vero, con tanto di candidati in comune nei collegi uninominali. E i suoi sberleffi, a cominciare da quel "Berluscaz" gridato dappertutto, indussero i vari Achille Occhetto, Massimo D'Alema ed Eugenio Scalfari a sperare ch'egli fornisse all'allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro l'occasione, cioè il pretesto, di non conferire al Cavaliere l'incarico di presidente del Consiglio, per quanto avesse vinto le elezioni. Imprevista invece agli occhi di costoro fu la decisione di Bossi di assecondare l'arrivo di Berlusconi a Palazzo Chigi e di fare entrare i suoi nel governo, accanto ai missini tanto attaccati sino a pochi giorni prima nei comizi. Ma già nella stagione successiva, l'estate del 1994, Bossi era in canottiera sulle sabbie, sugli scogli e sull'erba della Sardegna, a due passi dal Cavaliere, a preparare il suo disimpegno. Che tra minacce, insulti, colazioni romane a base di sardine con D'Alema e Rocco Buttiglione, e le prime iniziative giudiziarie partite da Milano contro l'allora presidente del Consiglio, sfociò a fine anno nella crisi di governo. Promosso dal compiaciuto D'Alema a "costola della sinistra" e scatenatosi sulle acque del Po a reclamare la secessione, tra l'imbarazzo dei suoi nuovi estimatori, arrivati tuttavia a consentirgli nel Parlamento eletto nel 1996 di mettere l'obbiettivo della indipendenza della Padania nel nome dei gruppi leghisti alla Camera e al Senato, Bossi già nel 2000 trattava con Berlusconi una nuova, questa volta più lunga alleanza, durata sino all'autunno scorso.

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