Svanisce l'illusione leghista sulla "diversità morale"
Le «dimissioni irrevocabili» di Bossi, travolto dall'inchiesta sull'ex tesoriere della Lega, sono uno di quegli avvenimenti destinati a lasciare il segno nella storia e nella politica nazionali. E non solo perché sanciscono l'uscita di scena di un leader che aveva costruito la sua lunga carriera sulla pretesa della "diversità morale" del movimento da lui fondato rispetto alla "disonestà" della cricca politica operante nella "Roma ladrona". Sono destinate, quelle dimissioni, a lasciare un segno anche sulle illusioni dei leghisti, i quali scoprono che il loro è un partito come gli altri i cui capi hanno della politica (e dell'uso della politica) una concezione non dissimile da quella dei leader da loro sempre contestati. Le conseguenze sul futuro della Lega saranno, probabilmente, catastrofiche anche perché Bossi era un leader carismatico nella cui figura il partito tendeva a identificarsi. Il suo coinvolgimento in una brutta storia - ammesso che i fatti risultino confermati - di finanziamenti occulti, fondi neri, tangenti, denari usati in maniera disinvolta per sé, per la famiglia, per gli amici non può che riflettersi su tutta la Lega e toccare gli equilibri politici dell'intero Nord. Quelle dimissioni, ancora, rappresentano una ulteriore spinta alla crescita irrefrenabile dell'antipolitica nel paese e al malinconico crollo della seconda repubblica destinata, sembra, come la prima a essere travolta dal fango degli scandali e della corruttela. Sono la goccia che fa traboccare il vaso. E fa montare la rabbia degli italiani, dei cittadini qualunque, nei confronti dei politici e della politica, fa crescere l'indignazione per i costi e le ruberie della politica e per i privilegi della casta. Qualche giorno fa un altro fatto ha alzato la temperatura dell'antipolitica del paese: la remissione del mandato della cosiddetta Commissione Giovannini, la task force guidata dal presidente dell'Istat per censire e comparare il trattamento economico di parlamentari, membri di organi costituzionali e figure apicali della Pubblica Amministrazione nel paesi europei ha dato un'altra spinta in questa. Il suo scopo era di giungere a uniformare stipendi ed emolumenti delle omologhe posizioni italiane, ma non è stato possibile raggiungerlo. Quindi, nulla di fatto. Che il Parlamento se la sbrighi da solo, ha detto in sostanza la Commissione. Il cittadino comune - è questo il risultato pratico - non vedrà, almeno nell'immediato, nessuna riparametrazione al ribasso degli stipendi dei politici italiani. E se, in futuro, si giungerà a qualche ritocco, rimane, pur sempre, il fatto che, grazie al tempo perduto con il lavoro di una inutile commissione, i "beneficati" avranno, comunque, guadagnato molti mesi di privilegi. Del resto, l'istituzione stessa di una commissione governativa pomposamente intitolata "per il livellamento retributivo Italia-Europa" era ridicola. Una scelta demagogica per guadagnare tempo e tacitare l'ondata di indignazione dei cittadini sempre più tartassati e ridotti in molti casi ai limiti della sopravvivenza. Il problema, infatti, era - ed è - uno soltanto: intervenire per ridurre costi abnormi della politica e privilegi ingiustificati della casta. Il disgusto per la politica, per i partiti e per coloro che vivono di politica e di partiti, è, ormai, giunto al livello di guardia. Ed è grave che, all'interno dei palazzi del potere e nei loro dintorni, questo sentimento diffuso di indignazione, e non più di rassegnazione, non viene colto nelle sue reali dimensioni. Se oggi si volesse rintracciare un principio di identità nazionale, un moto dell'animo capace di unificare il paese, sarebbe possibile trovarlo solo nell'antipolitica. Il rifiuto della politica, dei suoi costi e dei privilegi ad essa connessi, è ormai, al di là delle distinzioni ideologiche e delle differenziazioni culturali, il vero tessuto connettivo della nazione, il suo connotato identitario. Nella condanna dei partiti e, più in generale, delle forze politiche, gli italiani si ritrovano tutti, uniti come al fronte contro il nemico comune. I partiti sono percepiti, nella migliore delle ipotesi, come uffici di collocamento o come canali di accesso a privilegi, grandi o piccoli, di ogni natura, per iscritti, simpatizzanti, clientes, insomma. I parlamentari, senza eccezione, sono visti come parassiti preoccupati non del bene pubblico, ma degli interessi personali propri e della propria famiglia. Gli scandali di questi ultimissimi tempi confermano la degenerazione "familistica" e ipocrita della politica. Il fatto che nella cassaforte dell'ex tesoriere della Lega sia stata trovata una cartella con l'intestazione "The family", riconducibile, sembra, a Bossi, ha un valore emblematico. Come pure emblematiche sono le vicende del caso Lusi-Margherita. La degenerazione "familistica" della politica è qualcosa di più e di peggio della corruzione propriamente detta: è il frutto di una mentalità tipica di una casta che considera giusto, corretto e normale vivere di privilegi, nei privilegi, con i privilegi. Una mentalità che spiega le resistenze indignate o le recriminazioni di chi vede criticato il proprio operato (si pensi, per esempio, alle ineffabili dichiarazioni dell'onorevole Massimo Calearo) o di chi vede in pericolo, come Irene Pivetti, dei benefici connessi una carica cessata da anni. Tutto ciò accentua, sempre più, il distacco tra l'Italia dei cittadini comuni e l'Italia dei palazzi, tra società civile e ceto politico. Un distacco, già, all'indomani dell'unità nazionale, denunciato da Stefano Jacini in un celebre saggio Sulle condizioni della cosa pubblica in Italia dopo il 1866, con queste parole: «Ho dovuto confermarmi nell'opinione che la cosa pubblica in Italia, dal 1866 in poi, si fonda sul falso. C'è un'Italia reale che non è l'Italia legale, e che tende anzi a ribellarsi a quest'ultima». Erano altri tempi, tempi migliori, e molta acqua è passata da allora sotto i ponti. Si sono susseguite l'Italia liberale, quella fascista, quella della prima repubblica e, infine, quella dell'agonizzante seconda repubblica. Sono stati registrati, è vero - nella storia del nostro paese - momenti di entusiasmo e periodi segnati da grandi successi, che hanno, se non annullato, messo in sordina la sotterranea, eterna frattura fra "paese reale" e "paese legale". Nel 1955, in piena ricostruzione, Leo Longanesi fece una battuta sconsolata che, implicitamente, accennava all'estraneità degli italiani alla politica e alla loro rassegnazione: "una democrazia, quella italiana, in cui un terzo dei cittadini rimpiange la passata dittatura, l'altro attende quella sovietica e l'ultimo è disposto ad adattarsi a quella dei democristiani". Oggi, tutti, o quasi, gli italiani da estranei alla politica ne sono diventati avversari. Ed è così che l'antipolitica è diventata il simbolo dell'identità nazionale. E la vicenda Bossi ha messo il suggello a questa metamorfosi. Ed ha aperto scenari imprevedibili per il futuro.