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L'austerità non arriva a palazzo

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Quella che viene comunemente chiamata "la casta politica", ben più consistente dei pur numerosi parlamentari di ogni livello, nazionale e locale, che sono solo la parte più visibile e più esposta alla rabbia di chi non ne apprezza costi e rendimento, ha vinto un'altra battaglia. O, se preferite, ha fatto un'altra vittima. È la commissione istituita nello scorso mese di luglio, quando c'era ancora il governo di Silvio Berlusconi, per introdurre finalmente, sotto l'incalzare della crisi economica e finanziaria, un po' d'ordine e di economia, se non di austerità, nel Parlamento e dintorni. Dove tuttavia, specie alla Camera, furono subito posti pali e paletti. In particolare, pur disponibili a ricevere indicazioni e proposte ricavabili da un raffronto con le retribuzioni e i costi degli organismi analoghi dei Paesi europei, i signori dei palazzi parlamentari tennero subito a rivendicare la propria autonomia nell'adozione di eventuali provvedimenti. Un'autonomia -avvertirono- che doveva valere nei riguardi non solo della commissione ma anche del governo. E quando, succeduto a Berlusconi a Palazzo Chigi, il tecnico Mario Monti provò a mettere non le mani ma solo un dito nei costi delle Camere, se lo trovò non dico mangiato ma morso, e di brutto. Si è visto poi, sino all'ultima farsa, contestata dal solo Pier Ferdinando Casini, dei benefici "limitati" per dieci anni agli ex presidenti di Montecitorio al solo o più immediato effetto di assicurarne comunque la prosecuzione sino al 2023 nel caso fossero già scaduti, o scadessero prima di quella data; si è visto, dicevo, di che razza di tagli e rinunce si sono rivelati capaci nella loro autonomia i due rami del Parlamento. Per non parlare dei consigli regionali, provinciali, comunali, circoscrizionali e via scendendo. O dei più o meno alti e altri organismi istituzionali. O dei partiti, che non avvertono la vergogna di continuare solo ad annunciare o promettere correttivi alla cosiddetta disciplina del loro finanziamento pubblico travestito da rimborsi elettorali, mentre gli scandali si inseguono e si accavallano. Quelli della ex Margherita di Francesco Rutelli non sono ancora usciti dalle prime pagine dei giornali, e si sono solo affacciati nelle stanze della Procura di Roma, ed hanno fatto irruzione quelli della Lega, con due stessi comuni denominatori: l'abbondanza dei fondi elargiti dallo Stato, di gran lunga superiori alle "spese" da compensare, e la impresentabilità, per non dire peggio, dei loro tesorieri. Di fronte a questo spettacolo, tanto più inaccettabile e provocatorio quanto più alti diventano ogni giorno per i cittadini i costi della crisi, è sembrata un po' come la ciliegina sulla torta la notizia della rinuncia o delle dimissioni, chiamatele come volete, della commissione che, presieduta da Enrico Giovannini in quanto presidente dell'Istituto Nazionale di Statistica, avrebbe dovuto stabilire la "media comparata europea" a cui adeguare praticamente i costi della casta. E scusate il bisticcio, voluto, delle due parole. La commissione si è arresa dopo i tre mesi di proroga chiesti e ottenuti alla fine dello scorso anno. L'epilogo infruttuoso non le fa obiettivamente onore, anche se il presidente Giovannini non se ne ritiene responsabile. E ne ha dato la colpa ai "limiti" della legge istitutiva, che un esperto come lui avrebbe forse dovuto riconoscere e valutare subito, rifiutando in tempo l'incarico, alla scarsa collaborazione prestatagli dagli organismi europei e forse anche nazionali richiesti di fornire le necessarie informazioni, alla peculiarità infine del nostro fantasioso e pasticciato Paese. Una peculiarità, o "diversità" come ha preferito definirla Giovannini, che è dimostrata, fra l'altro, dal fatto che "solo in nove casi su trenta" è stato o è possibile stabilire "una buona corrispondenza" tra le istituzioni e gli enti italiani interessati al lavoro della commissione e quelli dei sei paesi europei scelti per il raffronto. Un bel risultato, non c'è che dire, di sicuro gradimento per i tanti parlamentari italiani, per esempio, che da tempo si dicono convinti di essere non i meglio ma i peggio pagati in Europa. Il governo ha reagito al default della commissione Giovannini assicurando, testualmente, che "proseguirà la propria azione nell'obbiettivo di giungere ad una razionalizzazione dei trattamenti retributivi in carico alle amministrazioni pubbliche". Ma già il linguaggio- quella "razionalizzazione" anziché riduzione- lascia più dubitare che sperare.  

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