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di Davide Giacalone Lo sviluppo porta con sé l'attenzione alla ricchezza, alla sua produzione.

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Comese avesse un senso economico il rosicante proverbio: mal comune mezzo gaudio. Temo che sia per questa ragione che l'occasion paper della Banca d'Italia, dedicato a "Ricchezza e disuguaglianza in Italia", desti più interesse per la seconda che per la prima cosa. Molti titoli si concentreranno sui dieci italiani più ricchi, che posseggono quanto i tre milioni più poveri, salvo fare poca attenzione a che la sperequazione della ricchezza è, in Italia, minore che altrove. Ancora una volta, insomma, il moralismo prenderà il sopravvento sull'esame della realtà e sulla convenienza. Proprio questo studio, del resto, chiarisce, nelle sue tabelle finali, che secondo gli italiani, senza significativa distinzione di collocazione regionale o reddituale, uno dei compiti principali dello Stato dovrebbe essere quello di limitare la disuguaglianza, laddove, invece, credo che questa sia una sana riproduzione di quel che la natura suggerisce, salvo che il compito di istituzioni sane e di società dinamiche è evitare che la disuguaglianza sia ereditaria, dovuta a privilegi e inespugnabile. Insomma, l'indice di libertà non è dato da poca disuguaglianza, ma da alta mobilità. Il nostro, invece, resta un Paese parrocchiale, come l'eco dell'occasion paper provvede a confermare. Leggendolo se ne traggono motivi di preoccupazione, ma non sono legati all'impossibile e nocivo egualitarismo. L'andamento del risparmio è divenuto negativo, e questo contrasta con una delle caratteristiche strutturalmente positive degli italiani. I risparmi diminuiscono non perché aumenta la dissolutezza, ma perché scema la capacità di produrre ricchezza. Se si guarda la ricchezza media pro capite (dato da maneggiare con tutte le precauzioni suggerite da Trilussa, circa il pollo che mediamente gli sarebbe toccato e che, invece, altri mangiano al suo posto) si conferma che il nostro è un Paese ricco, sicché la recessione è dovuta più a errori e a depressione che non a strutturale incapacità di girare la frittata. Ma se si guarda al rapporto fra la ricchezza e il prodotto interno lordo si coglie una rottura verso il basso, collocata nella seconda metà dello scorso decennio, che interrompe una lunga e continua crescita. Se, però, si guarda a quello stesso rapporto dopo averlo depurato dal debito pubblico si constata che la crescita continua, senza quel peso. Ciò dimostra che quel maledetto debito è un problema con il quale non si convive, che va affrontato e ridotto, ma che farlo per via fiscale significa rassegnarsi a un progressivo impoverimento collettivo. Che, se accompagnato alle gnagnere contro la disuguaglianza, finirà con il generare una dottrina pauperista dell'uguaglianza, un gusto perverso del cilicio fiscale, una sbavatura vendicativa contro la ricchezza, un rutto olezzante contro il mercato. Il senso di questo studio ci riportano laddove continuiamo a battere: il debito va colpito in modo secco, con le dismissioni di patrimonio pubblico non valorizzato e non produttivo. Altrimenti ci strangoliamo in un gioco sadomaso. Altro dato preoccupante è quello dell'età: nel 1987 erano più ricchi i giovani e le persone fino a cinquanta anni, oggi sono più ricchi quelli dai cinquanta in su. Da una parte conta l'invecchiamento medio, certo, ma conta molto di più il fatto che diventare ricchi è sempre più difficile, dato che il fisco penalizza in modo dissennato chi guadagna a sufficienza per potere accumulare e puntare alla ricchezza. La pressione fiscale sui redditi crea povertà e conduce all'egualitarismo della miseria. Un bel successo penitenziale, ma anche una bella cavolata collettiva. In questo stesso studio si apprezza il fatto che il peso della tassazione sui patrimoni, mobiliari e immobiliari, sia aumentato, ed è concettualmente giusto, ma a patto che diminuisca quello sul reddito prodotto. Quella che considero con terrore, invece, è l'ipotesi che si voglia valutare non ulteriormente tassabile il reddito (e vorrei vedere), rifacendosi sulla ricchezza. Tale stolta teoria porta solo a spostare ricchezza dalle famiglie allo Stato, trasformando la spesa in improduttiva e togliendo libertà ai singoli. Sembra una politica di giustizia, invece è una pratica da giustizieri. Torniamo al dato che avrà gran successo mediatico: i dieci italiani più ricchi posseggono quanto i tre milioni più poveri. Il moralismo guarda ai dieci, la razionalità ai tre milioni. Il fisco giustiziere punta alla decina, una politica di sviluppo si occupa delle milionate. Convenienza vuole che si viva in un mondo in cui i cretini siano progressivamente separati dalla propria ricchezza, sicché il capitale circoli. Giustizia vuole che chiunque possa puntare ad entrare nella decina, possibilmente allargandola. L'egualitarismo, piuttosto, vuole che tutti si sia cretini, ed è facile comprendere che, in quella situazione, ci vuol poco a essere anche più poveri.

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