"Il Riformista" e la cecità del Pd
A 88 anni compiuti il 21 marzo scorso Emanuele Macaluso ha preso un'altra decisione amara per la sua lunghissima esperienza di militante politico della sinistra e di giornalista. In particolare, egli ha dovuto condividere con la maggioranza dell'assemblea dei soci la liquidazione del quotidiano di cui accettò l'anno scorso la direzione per tentare un salvataggio che non gli è purtroppo riuscito: Il Riformista. Che chiude per mancanza più di fondi che di lettori. In verità, di pubblicazioni di cultura o specializzazione politica ma di scarsa diffusione nelle edicole, assistite tuttavia dal finanziamento pubblico riservato alle cooperative dei giornalisti e/o agli organi di partito, continua ad essere affollato il panorama editoriale italiano. E il quotidiano diretto da Macaluso, sia per la qualità professionale sia per quella politica, rappresentando con lo stesso nome della testata l'area della sinistra riformista, francamente non meritava e non merita di finire, per quanto costretto a sospendere le pubblicazioni per lo stato di liquidazione imposto dai conti in rosso. Di cui il povero Macaluso non poteva fare a meno di prendere atto, anche a costo di essere goffamente scambiato e indicato da un sindacalista del giornale – lui che al sindacato, quello vero, ha dato le sue migliori energie e non ha preso un euro per il lavoro svolto da direttore – per un emulo di Sergio Marchionne: l'amministratore delegato della Fiat salito in cima alla lista degli imprenditori più odiati e diffamati dai cavernicoli della sinistra, politica e sindacale. C'è purtroppo una disarmante coerenza tra la perdurante involuzione della sinistra italiana, di fatto guidata non tanto dal segretario del Pd Pier Luigi Bersani quanto dalla segretaria generale della Cgil Susanna Camusso, a sua volta condizionata dalla Fiom di Maurizio Landini, e la chiusura di un giornale come "Il Riformista". A Bersani, e prima di lui a Massimo D'Alema, a Walter Veltroni, a Piero Fassino e a tanti altri ex compagni del vecchio Pci di generazione diversa dalla sua, Macaluso ha rimproverato e rimprovera di non avere voluto trarre l'unica conseguenza logica dalla caduta del comunismo: riconoscersi nel filone socialista e riformista della sinistra. Anche per questo, convinto cioè delle «ragioni del socialismo», felicemente tradotte nella testata di un suo periodico prima ancora dell'avventura de "Il Riformista", egli si è ben guardato dall'intrupparsi nel Pd realizzato dagli ex compagni con i reduci della sinistra democristiana pur di sfuggire all'identità socialista, salvo frequentarne i rappresentanti all'estero. Ed ha continuato imperterrito a portare avanti la sua battaglia, d'altronde cominciata da «migliorista» già ai tempi del vecchio Pci con Giorgio Amendola e Giorgio Napolitano. Del quale ultimo Macaluso è stato giustamente il più convinto e appassionato sostenitore in quest'ultimo anno, difendendone le posizioni di presidente della Repubblica dai mal di pancia, e spesso anche dagli insulti, della sinistra più massimalista, avventurista e spocchiosa. Nell'annunciare la dolorosa decisione dello stato di liquidazione e della sospensione del suo giornale, il direttore de "Il Riformista" ha voluto esprimere la propria delusione per il sostegno finanziario rifiutatogli dal movimento cooperativo e dal sindacato. Di cui sarebbero bastati, e basterebbero, in effetti un po' di abbonamenti e di pagine pubblicitarie per salvare i conti della testata. Ma, benedetto e carissimo Emanuele, come hai potuto illuderti di ottenere una cosa del genere? Le cooperative di sinistra, con i loro miliardi di euro, preferiscono ahimè tentare o sognare ancora le scalate alle banche, con le quali poi sostenere i partiti e i movimenti della sinistra massimalista, piuttosto che spendere i loro centesimi per partecipare o sostenere un giornale autenticamente riformista. Lo stesso discorso vale per il sindacato, nel cui campo purtroppo la Cgil della Camusso è tornata a dettare legge e indirizzo anche alla Cisl e alla Uil, come dimostra l'offensiva in corso, nelle fabbriche e nelle piazze, contro la riforma del mercato del lavoro.