Bersani vuole il Porcellum e boicotta la riforma
Il porcetto al mirto è un piatto sardo di grande e meritato successo. Il porcetto all'ulivo è il sistema elettorale in vigore, chiamabile così per due motivi che smentiscono la convinzione molto diffusa che esso appartenga alla cucina del centrodestra berlusconiano, e in quanto tale per forza indigesto a tutti i militanti dell'antiberlusconismo. Il primo motivo per cui il porcetto elettorale è all'ulivo si trova nella sua stessa anagrafe. Il centrodestra di Silvio Berlusconi, ma anche di Pier Ferdinando Casini e di Gianfranco Fini, lo introdusse a livello nazionale tra la fine del 2005 e l'inizio del 2006 copiandolo pari pari dalla cucina della regione Toscana. Dove era stato cucinato e servito agli elettori da una sinistra ancora avvolta nelle bandiere dell'Ulivo, la coalizione formatasi dieci anni prima a Roma attorno a Romano Prodi. È appena tornato impietosamente a ricordarlo lo storico Massimo Teodori in un convegno sulla «Seconda Repubblica mai nata». Egli ha qui rimproverato alla sinistra «trasformista» di essersi «barcamenata sulla legge elettorale partorita nella regione Toscana realizzando un centralismo non democratico», con la combinazione di liste bloccate dalle segreterie dei partiti e premio di maggioranza alla coalizione vincente. Il secondo motivo per cui il porcetto elettorale è tuttora all'ulivo lo ha spiegato una fonte insospettabile come L'Unità concludendo ieri con questa «avvertenza» il commento agli impulsi arrivati dal vertice della maggioranza per le riforme costituzionale ed elettorale: «Chi griderà all'inciucio in realtà vuole difendere il Porcellum», cioè la legge in vigore. Nella pagina accanto lo stesso giornale storico del Pci, e delle sue successive edizioni, riportava le «voci critiche» levatesi nel Pd contro gli orientamenti emersi dal vertice tra Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini attribuendole in un titoletto ben visibile agli «ulivisti». I quali ritengono, in particolare, e fra l'altro, che con la nuova legge «non è garantito il bipolarismo». In effetti, il bipolarismo, almeno quello al quale gli italiani si sono abituati, perderebbe l'asse portante dell'obbligo delle coalizioni per concorrere all'assegnazione del premio di maggioranza. E la coalizione che gli «ulivisti» del Pd, e non solo loro, hanno in testa, con la quale contano allo stato attuale delle cose, cioè in base ai sondaggi, di vincere le prossime elezioni, anticipate o ordinarie che siano, ma meglio se anticipate, è quella della ormai famosa foto di Vasto, con Bersani, Nichi Vendola e Antonio Di Pietro. Che potrebbe essere costretta nella peggiore delle ipotesi a pagare qualche prezzo salato di potere al terzo polo di Casini, se quest'ultimo al Senato dovesse riuscire a far mancare alla sinistra il controllo dell'assemblea di Palazzo Madama per via dei premi di maggioranza assegnabili a livello regionale. Anche se formalmente è uno dei bersagli, o persino il primo, delle proteste degli «ulivisti» del Pd per la sagoma della riforma elettorale emersa dal vertice della maggioranza dell'altro ieri, Bersani potrebbe esserne curiosamente, e astutamente, il primo beneficiario. Lui magari liquiderà come «stupidaggine» anche questo sospetto, come ha cercato di fare proprio l'altro ieri smentendo che il Pd, o la sua maggioranza, preferisca elezioni anticipate in autunno, con l'attuale legge, a quelle ordinarie nella primavera del prossimo anno. Ma resta il fatto incontrovertibile che con il porcetto all'ulivo toccherebbe proprio a lui la possibilità di giocarsi la carta di Palazzo Chigi per una successione ravvicinata a Mario Monti. Nei cui riguardi ormai non passa giorno senza che il segretario del Pd, in concorrenza con la presidente Rosy Bindi, manifesti segni di insofferenza, o persino di rivolta. Com'è accaduto per la modifica della disciplina dei licenziamenti nell'ambito della riforma del mercato del lavoro predisposta dal governo. D'altronde, persino il paziente Casini, che tanto si è prodigato per il vertice dell'altro ieri allo scopo di diradare i nuvoloni di crisi addensatisi sulla maggioranza, parlandone con Il Foglio non si è mostrato molto convinto della effettiva capacità o volontà del segretario del Pd di cambiare la legge elettorale. Non a caso, del resto, sono mesi, non giorni, che lo stesso Bersani da una parte sollecita questa riforma e dall'altra avverte che con l'attuale legge egli ha una soluzione in tasca per apparire ugualmente credibile agli elettori: il ricorso alle primarie per la formazione delle liste bloccate. In ogni trattativa politica, si sa, le subordinate servono solo a indebolire la proposta principale.