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Infelice la battuta del Prof su Andreotti

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Faust e Mefistofele in una faccia sola - segnata dal tempo - che incarna in sé sessant'anni di storia italiana, democratica e democristiana. Che inizia con la Costituente in un'Italia liberata dal fascismo e prosegue accanto ad Alcide De Gasperi, negli anni difficili della ricostruzione e del piano Marshall, nei Sessanta del boom e nei Settanta del Terrore su su, sino al crollo del comunismo ed all'Italia che fa (non da sola) l'Europa. Visto da vicino il senatore a vita e lo statista Giulio Andreotti ha le spigolature, le grandezze ed i difetti propri di quegli uomini che si ricordano a lungo. Amati e odiati, mai indifferenti. Per questo le parole pronunciate, durante il viaggio nell'est asiatico dal presidente del Consiglio in carica Mario Monti, ci sono parse un po' troppo manichee: «Un illustrissimo uomo politico - questa la frase del premier - diceva: "Meglio tirare a campare che tirare le cuoia". Per noi nessuna delle due espressioni vale perché l'obiettivo è molto più ambizioso della durata ed è fare un buon lavoro». Premesso che tra le tante battute salaci del Gran Democristiano quella citata da Monti non è delle migliori (nulla a che vedere, ad esempio, con il «so di essere di media statura ma non vedo giganti intorno a me»), è il contrappasso che non c'azzecca molto dato che Giulio Andreotti è molto di più di una sua frase, sapida e cinica quanto volete. Non si conquista (a malincuore?) il soprannome di Belzebù soltanto per un paio di aforismi. Occorre altro, l'al di là della linguistica: il dolore della storia, gli altari e la polvere, le amicizie e le inimicizie, la vertigine del comando e - perché no? - gli errori. Se persino dal Pd, non certo passibile di andreottismo, ieri si è levata una voce per l'ultranovantenne leader, più volte ministro e premier - «Trovo infelice e fuori luogo - ha detto il vicepresidente dei senatori democratici, Luigi Zanda - il riferimento di Monti al Presidente Andreotti. È una battuta che mi ha molto stupito, di cui mi sfugge l'utilità e che chiama in causa Giulio Andreotti, senatore a vita proprio come Mario Monti. Insomma, una caduta di stile inaspettata» - una ragione c'è. Stile a parte, elogiare Andreotti significa parlar dell'Italia che lo ha anche processato - certo - ma non lo ha ripudiato. Perché Giulio è un pezzo del nostro Paese, come il Colosseo. Il neorealismo, stagione straordinaria del cinema italiano, si è scontrato con lui quando da sottosegretario, negli anni del secondo dopoguerra, il cattolico vide in quei film il lamento pauperista di una nazione che voleva (o perlomeno ci provava) rinascere. Federico Fellini ha carteggiato con lui, gli italiani lo hanno votato per mezzo secolo, liberamente, ed i leader del mondo gli hanno dato del tu. Negli anni dell'uscita dalle stanze del Potere, gli hanno dedicato un film, Il divo (regia di Paolo Sorrentino), pluripremiato, che ne racconta un pezzo di esistenza, tra il grottesco e il tragico. Perché «nella vita non basta avere ragione, bisogna avere anche qualcuno che te la dia», soprattutto in politica. Andreotti lo insegna, lui che ha conosciuto i segreti del comando ed incontrato i grandi, pure quelli che han fallito nonostante le buone ragioni. Come Mikhail Gorbaciov. Era il 1 dicembre del 1989, a Milano, e c'era pure Mario Monti. Andreotti era presidente del Consiglio, Gorbaciov il capo dell'URSS ed il professor Monti Rettore dell'università Bocconi. Gorbaciov fu nominato socio d'onore della Bocconi e di lì a poco avrebbe visto sfarinarsi la sua glasnost. Il muro di Berlino, invece, quello si era già sfarinato poche settimane prima. Anni dopo, a Germania riunita, Andreotti avrebbe ironizzato: «Amo talmente la Germania che ne preferivo due». Viva Andreotti, dunque: anche se chi scrive non lo ha mai votato, l'uomo - checché se ne dica - resterà nei libri.  

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