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Alfano e Casini legano Bersani

I segretari di Pdl e Pd Angelino Alfano (s) e Pier Luigi Bersani (d)

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Bersani fa le pentole, Monti i coperchi, Casini mette le posate e Alfano il tavolo. La notizia è che la Terza Repubblica si sta apparecchiando all'italiana: tutti si siedono a pranzo con il timore che ognuno sia intento a fregare l'altro (cosa verissima) e all'ammazzacaffè si alzano sempre con l'idea che ci sia un pacco e un contropacco da qualche parte, ma il risultato finale è che la gestione del restaurant «chez Montì» va avanti e lo chef di Palazzo Chigi ha giocato bene il suo menù asiatico. Il segretario del Pd è arrivato al vertice sulle riforme con l'alone sulfureo di quello pronto a bruciare Monti sull'altare delle elezioni anticipate. Alfano e Casini lo aspettavano al varco con un megaestintore. Da buoni eredi della tradizione democristiana, Angelino e Pier se lo sono cucinato a puntino. Lo hanno coccolato e – come nei mitici congressi dello Scudocrociato – l'hanno abbracciato, stringendosi affettuosamente intorno a lui. Per strangolarlo meglio. Il vertice dell'ABC (Alfano, Bersani, Casini) è un distillato di machiavellismo, un manualetto di sminamento. Come legare Bersani e farlo sentire libero. Preceduto da una serie di telefonate preoccupate da tutte le parti, osservato speciale dal quartier generale di Re Giorgio (Napolitano), annunciato dal botto di un missile terra-aria lanciato sulla rotta Seul-Roma che è esploso nel quartier generale del Partito democratico, il summit diventa decisivo quando tutti attendevano le dichiarazioni di guerra e il via alla campagna d'occupazione del Pd. Stretto tra il mandato della direzione del partito e la determinazione di Alfano e Casini a portare a casa l'impegno a (provare) a fare le riforme, anche Bersani ha dovuto piegarsi. Attenzione, il segretario del Pd non è un ingenuo, sa benissimo che questa non è la battaglia finale, ma solo una tappa di avvicinamento della sua portaerei verso l'area di lancio. Bersani ieri ha dato il via libera all'accordo su legge elettorale e riforme istituzionali, ma lasciandosi tutte le vie d'uscita libere. È il generale D'Alema-Yamamoto a guidare le operazioni. Egli si trova nella condizione dei giapponesi contro gli americani nel Pacifico: dieci portaerei contro tre, un sistema di crittografia degli ordini (quasi) impenetrabile e un avversario in difficoltà. D'Alema può decidere di sferrare un attacco in stile Pearl Harbour (le elezioni anticipate) quando vuole nei prossimi tre mesi.  Monti rientra in patria dopo la campagna di Corea pieno di medaglie. Il presidente del Consiglio ha unconsenso internazionale senza pari: in pochi giorni ha incassato il sostegno della stampa della business community (Financial Times, The Economist e Wall Street Journal) sulla riforma del lavoro, mentre sul piano istituzionale ha il via libera dell'Ocse e un «Mario go!» di Barack Obama che mitiga un Pd baldanzoso e a tratti sbruffone. È dalla troppa sicurezza delPd che bisogna partire, seguendo le nuvolette di fumo del sigaro toscano di Casini. Quando Pier ha capito che l'attacco dalemiano si stava profilando all'orizzonte, ha sfoderato il meglio del suo repertorio: il blitz angloamericano per far saltare i ponti e impedire il passaggio della cavalleria corazzata. Casini ha inviato il suo miglior agente speciale: se stesso. Così ha ottenuto che il vertice fosse asciutto, maledettamente essenziale. Poche ore di “ragazzi, un due tre, chi non ci sta è un figlio di mignotta” e poi via con un comunicato di non italiana concretezza: c'è l'accordo, andiamo avanti, ci vediamo in aula. Stop. E Alfano? Gioca il suo ruolo con paziente intelligenza. Mentre Casini lavora come Penelope al telaio della scomposizione e ricomposizione dei moderati intorno a una nuova trama, Angelino mantiene in piedi l'esistente, rinforza le fondamenta, insomma, tiene in piedi la baracca postberlusconiana. Sa che le amministrative saranno un duro banco di prova, ma ha dalla sua i numeri di un partito che, in ogni caso, sarà un perno del sistema. Parlando ai senatori ieri sera ha messo davanti agli occhi di tutti lo scenario: «La sfida del Pdl è preservare il patrimonio di questi 18 anni e destinarlo ad un soggetto politico che non nasca da una gara di coalizione ma che chiede al primo partito che vince di mettere su una coalizione intorno ad un progetto. Questo è lo scopo di una nuova strategia che probabilmente saremo chiamati a gestire». Se passa il sistema elettorale alla tedesca, questa è la sfida: essere il primo partito, incassare il premio e aggregare chi ci sta. Intorno a questa idea Alfano può costruire il futuro del centrodestra. Ammesso che il Pd voglia correre il rischio. Perché alla fine della fiera è intorno ai piani, ai dilemmi, alle lacerazioni interiori e ciclopiche aspirazioni dei «democrats de noantri» che ruota la politica del Belpaese. In mezzo a questa battaglia feroce ci sono Napolitano e Monti, due presidenti che vivono il paradosso di essere nel loro massimo momento di potenza e, nello stesso tempo, in bilico. Il Quirinale è già sotto Opa ostile. Re Giorgio ha indebolito involontariamente le sue difese annunciando l'intenzione di non ricandidarsi. Da quel momento si è aperto il Gioco del Colle. E Prodi sogna di installarsi al Quirinale con donna Flavia. SuperMario invece fa i conti con unPd in pole position nel Gran Premio del voto e - per la prima volta da quanto è iniziata l'era dei tecnici - intento ad affiggere sui muri i tazebao della rivolta contro Elsa Fornero, alfiere della riforma del lavoro «brussellese», Lady di ferro di un governo dove i maschi sembrano di coccio e le signore (osservare le mosse di Cancellieri per averne ulteriore prova) sono temprate come l'acciaio. Ieri è stata siglata una tregua, ma la guerra è appena iniziata. La conduce, ancora una volta, la gioiosa macchina del Pd. Nel 1994 la fermò Berlusconi. Oggi il Cavaliere guarda con i binocoli il campo di battaglia. Senza di lui, sta saltando il bipolarismo. Fu costruito intorno alla sua figura, dal centrodestra come dal centrosinistra. Berlusconismo e antiberlusconismo hanno segnato tutti i passaggi istituzionali della Seconda Repubblica. Si volta pagina e s'apre un capitolo in cui la stabilità dei governi non passa dalle coalizioni costruite prima del voto, ma dal semplice e aritmetico fatto che il partito che vince incassa un premio e non c'è possibilità di mandarlo all'opposizione. È una stabilità non costruita su un Supremo Comandante, un leader che ha il carisma, galvanizza e coalizza, ma sul partito che traina meglio e tiene insieme i suoi simili. Un ritorno, se si vuole, alla normalità, ma in un sistema fatto di contraddizioni, come quello italiano, è facile che l'ordinario diventi straordinario. Perché in alto mare ci sono le portaerei del Pd schierate e la tentazione di incassare il bottino subito con il porcellum è altissima. Bastava osservare la faccia di Pier Luigi Bersani ieri dopo il vertice con Alfano e Casini per rendersene conto: non sorrideva. Non ne aveva motivo. Un accordo simile, se realizzato, leva al Pd un formidabile argomento per la campagna elettorale, posticipa l'appuntamento pregustato dal giorno del passo indietro del Cav di altri trecento giorni e lascia con il fiato sospeso tutti perché nel frattempo il Nemico, «il Caimano», non si sa che cosa possa tirare fuori dal cilindro. Diciotto anni di ossessione producono ancora l'ossessione. A getto continuo. Dentro e fuori il Pd. Ecco perché la Repubblica battezza le frasi di Monti da Seul («se il Paese non è pronto, potremmo andarcene, non tiro a campare come Andreotti») come un «editto», parola riservata con disprezzo all'universo berlusconiano, per cui ieri era «l'editto di Sofia» e oggi è «l'editto di Seul». Fa niente se uno è Berlusconi e l'altro è Monti. È la metafora che conta, il paradigma culturale che viene presentato al pubblico: Monti non è uno di noi. Così tutto un mondo ha chiaro che il professore è transeunte, serve a uno scopo e - foss'anche «l'ultima occasione», come ben detto da Carlo De Benedetti - Monti resta in ogni caso il passaggio a livello di una stagione, non il mattone sul quale si edifica una nuova casa. È proprio leggendo Repubblica, delizioso sismografo dei desideri progressisti, che si sviluppa nella camera oscura la perfetta fotografia di quel che sta accadendo. L'Ingegnere sostiene Monti, il direttore Ezio Mauro lo attacca in prima pagina perché osa insinuare che il «Paese non è pronto» e dunque ripudia la democrazia dal basso, mentre il Fondatore, Eugenio Scalfari ne loda l'azione e sostiene la riforma del lavoro. Una varietà di opinioni, frutto certamente di personalità forti, ma indicativa dei pensamenti e ripensamenti in corso nell'area larga del progressismo. Finito il berlusconismo, si riaprono i giochi. E sono senza frontiere.

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