Siluro con il loden su Bersani
Ora il piano per liquidare Monti è scoperto. Quel che abbiamo anticipato ieri, per una concatenazione di eventi, s’è rivelato in tutta la sua concretezza. Mario Monti e il Pd sono ai ferri corti. Il premier non vuol farsi fare la festa dai democratici. E l’infelice definizione di Repubblica, «editto di Seul», la dice lunga su come sia stata presa a sinistra la sortita di Monti sui «dopo-lavoristi» del Pd, quelli che la riforma del lavoro, meglio dopo e come diciamo noi. Eppure bastava leggere le cose che da giorni s’accumulavano dalle parti del Pd contro Monti per capire che prima o poi il Prof avrebbe reagito per legittima difesa. Monti non aveva gradito il tono di Bersani, gli avvertimenti e la minaccia diretta. Chiamato a fare «il lavoro sporco» dai partiti, SuperMario non ci sta a prendere le torte in faccia da se n’è lavato le mani. La doccia coreana per Bersani è arrivata nel pomeriggio, mentre il suo partito era riunito in una direzione la cui sceneggiatura rosibindiana aveva previsto (quasi) tutto, dal «libro Cuore» di Veltroni e D’Alema, alla citazione fumettara di «Willy il Coyote» di Max, fino all’unanimità sulla relazione del segretario. Roba che non si vedeva dai tempi della falce e il martello. «Se il Paese non è pronto, potremmo andarcene. Non sono come Andreotti, non tiro a campare». Swoooossh.... parte un missile terra aria con il fregio del loden verde sulla testata. Velocità di crociera massima, tempo di arrivo qualche minuto, target: Bersani Pierluigi, segretario del Pd. Colpito. Ma non affondato. Stavolta la corazzata Potemkin democratica non fa macchina indietro. In casa del Pd hanno letto il dispaccio, si sono guardati in faccia e chiesti: e ora che si fa? Qualche settimana fa Bersani avrebbe abbozzato, bofonchiato qualcosa in «crozzese» e incassato il colpo. Ma è passato un secolo e la partita è cambiata. Monti non è un compagno, tantomeno di viaggio. Il Pd ha cambiato schema di gioco, ha aperto una campagna napoleonica che prevede la presa di Palazzo Chigi, l’occupazione del Quirinale (prenotato dall’imperatore in esilio, Romano Prodi) e la costruzione del «doppio forno» democratico (sinistra-centro) per i decenni che verranno. Quel che è accaduto ieri è un’accelerazione improvvisa che Monti, stretto all’angolo, ha meditato con la sua solita calma, ma poi ha fatto balenare nell’aria come una sciabolata. D’altronde, la sua Giovanna D’Arco al titanio, Elsa Fornero, l’aveva detto di non aver intenzione di rimetterci il macinato fresco: «Non ci faremo fare la riforma a polpette». E dunque il piano per liquidare Monti va avanti. Se non ora, quando? Slogan democratico e antiberlusconiano, come si conviene a una forza che sente la vittoria in tasca. Ieri abbiamo seguito le impronte digitali lasciate in giro con imperizia da Bersani, oggi restiamo sulla «crime-scene» dei compagni, perché da almeno 48 ore in casa Pd c’è un pirotecnico Massimo D’Alema che va letto, interpretato, delibato come un vino da grandi eventi. Max è un genio del comando, fa niente se ogni tanto le sue imprese finiscono nel guiness dei fiaschi militari. Lui sa come si fa a galvanizzare le truppe e condurle alla vittoria. Giuliano Ferrara, uno con il cervello fino, ha visto benissimo il piatto in cottura e l’ha scodellato così: «Rischiamo di ritrovarci un governo laburista con Vendola ministro». «Yessir, ring the bell», sissignore, suoni il campanello e si accomodi: stiamo entrando nella fase creativa del primo governo italiano di sinistra-centro, con la sottile differenza che i democrats non sono neppure i lontanni epigoni di Tony Blair. In attesa che il centrodestra si svegli - e Pier Ferdinando Casini faccia qualcosa di centrista - le grandi manovre sono in corso. La vasta operazione militare è guidata con solito rumore di trombe e tamburi dal generale delle armi e delle munizioni, Massimo D’Alema. Bersani si presenta in manica e camica, sorseggia una birretta e legge, ma D’Alema è quello in divisa grigia che inforca gli occhialini e scrive i piani, ha le carte topografiche, sposta brigate, cannoni, mette in campo la cavalleria corazzata, la fa ripiegare, emette bollettini veri e falsi, lancia ultimatum e soprattutto penultimatum. Una furia creativa che ha un solo obiettivo: «Dopo Monti, tocca a noi andare a Palazzo Chigi». Dalemate? Può darsi, ma è determinato come non mai. Purissimo fuoco d’artiglieria salentino. Quattro colpi su tutti. Uno: «Chi ci ha teso un agguato ha fatto la fine di Willy il Coyote». Chi? Non ha importanza, ciò che conta è evocare il Nemico. Due: «Non possiamo arrenderci all’idea che le riforme non si faranno, non dobbiamo metterci il bastone tra le ruote da noi». Ergo, seguitemi e poche storie. Tre: «Noi siamo stati la forza del rigore, abbiamo avuto ministri dell’Economia come Ciampi e Padoa Schioppa. Per competenza e rigore siamo maestri, non allievi». Caro Monti, non ci impressioni, veniamo prima, durante e dopo i tecnici. Quattro: «Sosteniamo il governo Monti e prepariamo una prospettiva politica convincente, una svolta in senso progressi sta rispetto alle politiche conservatrici e neoliberiste». Stiamo arrivando, siamo cazzuti e non faremo prigionieri. Non bisogna aver trascorso tutta la vita nel Palazzo per capire che D’Alema ha fiutato la vittoria elettorale. E ha anche fiutato che in queste condizioni l’unica incertezza è proprio il fattore tempo, mai rischiare il logoramento di una situazione che ora è ideale. L’emergenza economica nella percezione dei due grandi partiti - anche il Pdl la pensa sotto sotto così, ma ora ha la Santa Barbara con le polveri bagnate - è finita da un pezzo. Lo spread altalena, ma il mercato del debito appare sotto controllo e tutto il resto non si farà. Non a caso ieri Maurizio Sacconi lanciava un aut aut: «Sulla riforma del lavoro si confrontino i partiti con il governo, o sarà il Vietnam». Mentre Angelino Alfano dava il tocco di frusta finale: «O si fa una vera riforma, o non si fa niente». Come dire, lo sappiamo che qui finisce tutto nelle sabbie mobili di Montecitorio e Palazzo Madama. Il Pd dunque è nelle condizioni migliori per lanciare il takeover sui Palazzi del potere. Ha i voti - l’alleanza Bersani-Vendola-Di Pietro ha oltre il 40% dei consensi - ha gli avversari impreparati e un «terzopolino» che non ha la massa critica per essere una preoccupazione, al limite può essere una stampella per il domani. Pier Ferdinando Casini ieri ha realizzato d’un tratto che sembianze ha il pericolo e cominciato a cercare una soluzione. Non è facile. Alla fine i numeri sono numeri. Ha mandato avanti Rocco Buttiglione in versione apocalittica: «Dopo Monti ci sarà il baratro», ammonito «l’idea che la crisi sia finita» e minacciato il suo piano se si vota con questa legge elettorale: «Mi metterò al centro e lavorerò per una soluzione di larghe intese, come ora». È un’idea, ma non impedisce il piano per liquidare Monti. Ora o dopo, D’Alema così lo realizza senza colpo ferire. E neppure un sibillino Gianfranco Rotondi che manda avanti un governo Amato post-balneare per chiudere la legislatura in caso di «caduta Monti» può preoccupare più di tanto. L’unico vero ostacolo che può incontrare la sinistra è interno, derivante più dalle dinamiche delle correnti del Partito democratico che da un cartello di partiti che gli si oppone con un’idea e un progetto politico degni di tal nome. Ecco l’imprevisto nella sceneggiatura della direzione del Pd di ieri: lo scazzo sulla riforma elettorale, la lite in diretta. Rosy Bindi che dice a D’Alema che la bozza Violante può andare nel tritadocumenti, Arturo Parisi che suggerisce di azzerare tutto, D’Alema che mette il paletto e non ci sta a farsi mandare all’aria una legge che spera di portare a casa, Letta che si dissocia da Franceschini che sferra l’attacco preventivo al Pdl prima ancora di mettersi al tavolo della riforma e vedere se si chiude. È sulla carne viva della sopravvivenza, le regole, dove e come si vota, chi e come si selezionano i candidati, i seggi e le poltrone, che il Pd appare il Far West che sappiamo. Tutti gringos. Ma come insegna la politica, quando tira aria di vittoria, quando sembra di avere il vento in poppa, alla fine si appianano anche gli screzi, si trova un accordo, si riversano le energie su altri obiettivi e capri espiatori. Il Partito democratico ne ha uno interno enorme che ha già con un po’ di imprudenza anticipato che non sarà più della partita politica, Giorgio Napolitano. Ai compagni non è sembrato vero: «Ha detto che non si ricandida...» commentavano domenica scorsa. Temo abbiano fatto i conti senza l’oste e il fattore. L’oste Napolitano si rivelerà un osso durissimo nei prossimi giorni. E il fattore Monti ha appena iniziato a tirare con lo schioppo. Archiviarli non sarà facile. Il primo è quello che le Camere le scioglie con il suo pugno, il secondo ha in mano il debito pubblico che si avvicina alla quota monstre di duemila miliardi di euro. Si può anche liquidare Mario Monti, ma quella montagna di debiti sulle spalle degli italiani resta.