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Napolitano è diventato il garante dell'unica sinistra riformista

Il capo dello Stato Giorgio Napolitano

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Più esplicito non poteva essere ieri il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel contestare la catastrofica rappresentazione che la Cgil e le sue sponde politiche, fuori e dentro il Partito Democratico, stanno facendo delle modifiche predisposte al famoso articolo 18 del vecchio statuto dei diritti dei lavoratori. Non vi sarà la «valanga di licenziamenti» temuta dai critici e avversari di questa riforma, ha detto il capo dello Stato avvertendo che i rischi di disoccupazione provengono dalla crisi economica, più che dalla insana, preconcetta voglia attribuita agli imprenditori di liberarsi dei loro dipendenti. Di «valanghe», in effetti, c'è solo quella di bugie, minacce e forzature con cui la vecchia sinistra sindacale e politica ha deciso di sommergere i suoi militanti per combattere l'ennesima battaglia di retroguardia, accettando peraltro con la solita disinvoltura la compagnia di partiti e di uomini di sponde ideologicamente o culturalmente opposte. Come sono, per esempio, la Lega di Umberto Bossi, tornata a contemplarsi come la «costola» della sinistra opportunisticamente certificata da Massimo D'Alema nel 1995, dopo la prima rottura con Silvio Berlusconi, e l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Che sta francamente alla sinistra, vecchia o nuova che sia, come il "Tonino" da Montenero di Bisaccia a un patito della grammatica, o della sintassi della lingua italiana. Un'altra valanga in corso è quella delle insinuazioni e degli attacchi veri e propri a Giorgio Napolitano. Di fronte ai quali già impallidiscono, e ancora di più impallidiranno, gli errori compiuti negli anni e mesi scorsi dal Cavaliere, quando da presidente del Consiglio scambiò tanto ingenerosamente quanto incautamente il capo dello Stato per il capofila, o quasi, dei suoi avversari politici. Sino a vederne l'ombra attiva, o solo omissiva, dietro la decisione assai sorprendente della Corte Costituzionale di bocciare il temporaneo scudo giudiziario garantitogli da una legge che proprio Napolitano aveva motivatamente e tempestivamente promulgato, senza lasciarsi trattenere o intimidire dalle allora opposizioni politiche, ma anche togate. Che non vedevano l'ora di riprendere i vecchi processi, ma anche di aprirne di nuovi, come è poi accaduto. Già accusato allora di inquietante difesa del Cavaliere dalla voglia di molti magistrati di "sfasciarlo", come si era già offerto di fare nel 1994 Antonio Di Pietro, sempre lui, quando era sostituto procuratore a Milano, Giorgio Napolitano è stato ieri chiamato in causa in modo più o meno esplicito e obliquo come complice o addirittura regista di una dura manovra contro il Pd, e più in generale contro la sinistra, dal giornale Il Fatto Quotidiano. Che, a dire il vero, alle sorti o alla buona salute del partito ora guidato dal povero Pier Luigi Bersani non ha mai dato l'impressione di essere interessato, premendogli molto di più i movimenti di Nichi Vendola, di Antonio Di Pietro, di Beppe Grillo e dei No-Tav, dei sindaci aspiranti leader nazionali e simili. Secondo questo giornale, quanto più Giorgio Napolitano sostiene e incoraggia il governo tecnico di Mario Monti sulla strada della riforma del mercato del lavoro e altro ancora, tanto più concorre a "sfasciare" il Pd. La stessa formazione del governo Monti, nello scorso autunno, sarebbe stata decisa dal presidente della Repubblica contro un piano, o quasi, già predisposto dal Pd, da Vendola, da Di Pietro e, par di capire, dal Terzo polo di Pier Ferdinando Casini per adottare, dopo le dimissioni di Silvio Berlusconi, lo scenario spagnolo delle elezioni anticipate. Cui avrebbe dovuto seguire il governo Monti, appunto, con l'incarico di durare due anni: il tempo necessario per varare le misure economiche più urgenti, da concordare con la sinistra prevedibilmente uscita vincente delle urne, per finire di disarticolare il centrodestra berlusconiano e per riportare il Paese nel 2014 a nuove elezioni anticipate. La cui partita avrebbe potuto o dovuto essere giocata tra il centrosinistra della famosa foto di Vasco, quella di Bersani, Vendola e Di Pietro, e un nuovo centrodestra di Casini. Se questo piano è mai esistito davvero, concepito non tanto per salvare l'Italia da una crisi economica e finanziaria certamente sottovalutata da Berlusconi quanto per profittarne politicamente a vantaggio di una sinistra divisa e arcaica, e perciò incapace di fare meglio del Cavaliere, esso non ha trovato per fortuna la sponda istituzionale che gli serviva. I conti insomma erano stati fatti senza l'oste del Quirinale. Che ha privilegiato gli interessi generali del Paese. Piuttosto che perdere altro tempo ancora, affrontare con questa legge elettorale il rinnovo anticipato delle Camere, destinate ad essere composte di parlamentari nominati dalle segreterie dei partiti, e rischiare di trovarsi di fronte ad un Parlamento ancora più ingovernabile e frazionato di questo, il capo dello Stato ha giustamente messo subito in campo il governo tecnico. Ed ha altrettanto giustamente offerto a tutti, a destra, a sinistra e al centro, senza privilegiare nessuno, una occasione tanto preziosa quanto irripetibile di aggiornarsi alla realtà delle cose, affrontando le elezioni ordinarie dell'anno prossimo, se ne saranno capaci, con programmi e alleanze più consone alle condizioni del Paese. Peraltro, fra tutti gli uomini appartenenti per militanza e cultura alla sinistra, Giorgio Napolitano è l'uomo più attrezzato ad avvertirne i limiti e a stimolarne l'evoluzione. Lo è sia per il ruolo istituzionale fortunatamente affidatogli sei anni fa da un Parlamento tentato da candidati che ci avrebbero oggi fatto sobbalzare, come il D'Alema appena schiacciatosi sulle posizioni oltranziste della Cgil contro la nuova formulazione dell'articolo 18; sia per il prestigio di cui gode, destinato a non essere certamente scalfito dalle campagne avviate contro di lui in questi giorni; sia per la dura esperienza vissuta nel vecchio Pci. Dove con i suoi compagni «miglioristi», chiamati così perché a dirsi riformisti si rischiava l'espulsione, se non di più, era in minoranza. E preferì restarvi, piuttosto che cambiare idea in cambio di potere. La sorte gli ha riservato la fortuna di poter continuare a combattere la sua antica battaglia, questa volta forse con successo, grazie anche alle condizioni storiche createsi con la caduta del comunismo e con il processo d'integrazione europea. Sta toccando proprio a lui, un uomo nato nel lontano 1925, come ricordava qualche giorno fa Mario Sechi in un editoriale ai nostri lettori, il compito di spingere la sinistra italiana oltre la soglia della modernità. Che è poi lo stesso obbiettivo propostosi nel 1976 in Italia dal socialista Bettino Craxi, che non a caso Napolitano e i miglioristi nel Pci erano accusati di volere in qualche modo fiancheggiare: condannati anche per questo ad una sostanziale emarginazione politica, pur in qualche contesto onorifico. Caduto Craxi anche a causa dei propri errori, che pagò con "una durezza senza pari" onestamente ammessa e lamentata nel decimo anniversario della morte dallo stesso Napolitano in una lettera alla vedova, è quindi toccato all'attuale presidente della Repubblica raccoglierne in un certo senso il testimone. Così come è toccato a Napolitano raccogliere anche l'eredità di Francesco Cossiga, un democristiano anche lui ostinatamente contrastato dalla vecchia sinistra comunista, condividendone l'aspirazione ad una vera riforma della Costituzione. Che sarà pure "la più bella del mondo", come dice Bersani spazzolandole metaforicamente i capelli, magari con l'aiuto del suo imitatore, l'impareggiabile Maurizio Crozza, ma di un mondo che onestamente non c'è più, o quasi. Dovrà decidersi a rendersene conto.

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