Il piano per liquidare Monti
C’è un piano per liquidare il governo dei tecnici, ipotecare la casella della Presidenza della Repubblica, andare al voto e dar vita a un esecutivo di sinistra-centro che spegne il progetto di Partito della nazione di Pier Ferdinando Casini e qualsiasi tentativo di ricostruzione di un’alternativa moderata post-berlusconiana. Il progetto è sempre stato sottotraccia, fin dall’inizio della legislatura, ma finora gli eventi ne avevano impedito la realizzazione. Ora, con la miccia accesa della riforma del Lavoro, questo disegno ha la possibilità di compiersi e sta accelerando la sua parabola. Sono le parole dei giorni scorsi di Pierluigi Bersani a segnalare l'escalation. Pressato dall'ala dura del Partito democratico e dalla Cgil, il segretario ha cominciato a tirare colpi di piccone sul presidente del Consiglio. Un fatto che ha colpito lo stesso Monti, per la ruvidezza del tono e il senso diretto della minaccia. Facciamo un flashback cronologico sul Pd e il suo segretario, perché i suoi interventi sono una mappa precisa di quel che sta accadendo. Dopo aver trascorso alcuni giorni a convincere – senza risultato – Monti a commissariare la Rai (che fa parte integrante del piano), il segretario del Pd comincia ad ammonire Palazzo Chigi mentre sono in corso gli incontri con le parti sociali. Il 20 marzo dichiara: «Tocca al governo colmare le distanze sociali». Come dire, è Monti e non Camusso che deve fare il passo indietro. Bersani è a Genova a chiudere l’assemblea degli amministratori locali del Pd. Monti e Fornero spiegano ai sindacati che la riforma non può essere smantellata e «la vicenda è chiusa e si va in aula così». Il governo ha una posizione coerente, Fornero non cede di più. Napolitano è informato durante il faccia a faccia con il premier. Bersani riceve il feedback della Cgil, ma viene informato anche dalle «talpe» che ha nel governo. Tanto che il segretario del Pd interviene con una nota: «A questo punto tocca al Parlamento». Secondo avviso in 24 ore. Il giorno dopo, all’ora di pranzo, sibila: «Articolo 18? Non si può parlare di accordo...». A sinistra è un crescendo. Camusso s’incazza e la Cgil decide un pacchetto di 16 ore di sciopero generale. Bersani deve andare in serata a Porta a Porta, prova a trattenersi, ma l’Ansa alle 16.08 lancia un suo sfogo in Transatlantico con Cesare Damiano: «Se devo concludere la vita dando il via libera alla monetizzazione del lavoro, io non la concludo così». Entra in campo l’area cattolica del Pd, Franceschini avverte: «Niente decreti». Mentre Bersani si prepara a vestire i panni del falco nel salotto di Vespa, alle 20:55 l’agenzia di stampa TMNews materializza i fantasmi che agitano le notti del Pd: «L’insistenza e la regolarità con cui Monti e Elsa Fornerno hanno alzato l’asticella sull’articolo 18 ha alimentato quello che qualcuno in casa Pd chiama il "sospettaccio", ovvero che si voglia proprio arrivare a mettere in difficoltà Bersani, costringendolo a rompere "a sinistra" e preparando così le condizioni per quella prosecuzione delle larghe intese che Pier Ferdinando Casini, forse non a caso, va predicando da tempo». È la voce dal sen fuggita che finisce sui terminali dei giornalisti. Pochi se ne accorgono, ma da qui, comincia un’altra partita della stagione dei tecnici. Quella decisiva. Bersani è da Vespa, sono le 21:16 e l’Ansa lancia il siluro democratico contro Napolitano-Monti-Fornero: «Non condivido la modifica dell’articolo 18 perché è all’americana e non alla tedesca». Amerikana, con la kappa. Pochi minuti dopo altro siluro: «Monti non può dirci prendere o lasciare». Alle 23:10 Bersani sale in quota periscopica, mette la divisa delle grandi occasioni e fa capire che Monti è una parentesi da archiviare in fretta. Vespa gli chiede della foto "twittata" da Pier, quella del vertice con Alfano e Casini a Palazzo Chigi e lui risponde, serafico: «È una foto di transizione e di emergenza». E subito dopo confessa di lavorare allo sviluppo di un’altra foto, quella di Vasto, con Vendola e Di Pietro. Il Monti bis? Liquidatissimo, roba da saldi di fine stagione: «Io ho solo a cuore una cosa: il prossimo giro proviamo a essere un Paese a democrazia matura». È la sera del 21 marzo 2012, comincia da qui il progetto per archiviare i tecnici, mandare a carte quarantotto il governo voluto dal Presidente Napolitano e aprire la strada alle elezioni, meglio se anticipate, per non lasciare il tempo a Monti (e Corrado Passera) di trasformarsi in soggetto politico. Che il disegno sia questo, è confermato dalle parole del peso Massimo del Pd: D’Alema. Il Gran Timoniere democratico con consumata esperienza l’altro ieri ha rassicurato Monti, ma reso visibile ai cecchini il target: «Non vogliamo fare la guerra a Monti né rovesciarlo, ma si è creato un problema. Il Governo ha commesso un errore e noi vogliamo aiutarlo a correggerlo». Altruista. Quale errore? Eccolo: «La trappola non è scattata, cioè quella di spaccare il Pd e isolare la Cgil». Una trappola. E chi la tendeva? Monti? Fornero? Napolitano? Questi sono i protagonisti della vicenda. Tutti fuori dal campo berlusconiano. «L’ennemi à gauche» allora, il nemico a sinistra. In realtà quello di D’Alema è un sublime gioco di dissimulazione che non riesce a nascondere l’esito finale. 24 marzo 2012, lancio Ansa delle ore 16:38, parla D’Alema: «Noi ci dobbiamo preparare per arrivare alla scadenza naturale della legislatura e conquistare la guida del Paese». Concetto ribadito ieri sera in tv da Fabio Fazio: «Dopo Monti, serve una svolta a sinistra». Niente di eretico, ma il problema è che la strategia che si sta dispiegando rischia di mandare gambe all’aria il lavoro fatto da Monti, non costruire alcuna alternativa politica e far tornare gli zombi. Con queste premesse, la riforma del lavoro andrà a rilento, verrà annacquata e alla fine la montagna partorirà un topolino. A rimorchio ci sarà la legge elettorale. Non se ne farà nulla anche perché con questa legge il Pd è certo di vincere (si proiettano almeno cento deputati in più) e il centrodestra e la Lega più altri spezzoni della politica dovrebbero dividersi i resti. Le condizioni per il voto anticipato si stanno creando rapidamente: lo spread è calato e nel Palazzo si pensa che sia più effetto del lavoro della Bce di Mario Draghi che di SuperMario Monti. In ogni caso, chi lavora sullo scenario della scalata ora e subito - prima che i tecnici diventino un soggetto attivo, prima che Casini metta qualche mattoncino sul suo progetto neofusionista, prima che il Pdl ricostruisca il rapporto con la Lega - pensa che i tempi siano maturi perché il "lavoro sporco" su tasse e pensioni è già stato fatto, le liberalizzazioni sono all’acqua di rose e la riforma del lavoro verrà piazzata sul banco di sabbie mobili del Parlamento. «A questo punto - è il ragionamento - bisogna mettere in moto il meccanismo che conduce alla crisi entro l’estate, mandare Monti a abbronzarsi e preparare il voto in ottobre». Il Prof ha un consenso stellare? L’opinione pubblica non capirebbe? «Arriverà il pagamento dell’Imu a chiudere la luna di miele degli elettori con Monti...» è l’epitaffio sulla tomba dei tecnici. Nessuno fa i conti con Napolitano. Come reagirà il Quirinale a un rallentamento della riforma del lavoro? Dimostrando, ancora una volta, di non aver capito niente dello scenario, la destra del Pdl sta mettendo sotto accusa Napolitano per non aver voluto il decreto. Non hanno colto che l’altro bersaglio grosso del piano di liquidazione è il Quirinale. Il Colle ha costretto il Pd a mangiare la minestra dei tecnici, ha fatto passare una riforma delle pensioni che Bersani e soci non volevano, ha chiesto (e ottenuto fino a ieri) ubbidienza sui decreti. Napolitano è il nemico numero uno dell’ala dura del Pd, un riformista vero espresso da un partito dove il comando è ancora saldamente nelle mani dei postcomunisti retrò, gente che trova normale manifestare con Hollande contro il fiscal compact deciso dall’Europa e poi far finta di sostenere Monti in patria. Napolitano è considerato nella sua parabola finale, ha espresso il massimo sforzo, ma la sua casella è già oggetto di takeover. E in pole position non c’è per niente Mario Monti, ma il pacioso e inossidabile Romano Prodi. Apparve in piazza subito dopo il passo indietro di Berlusconi, brindò con Alessandro Profumo (oggi alla presidenza di un altro pezzo del potere della sinistra, il Monte dei Paschi di Siena) poi è tornato a pontificare di Cina, in attesa di uscire allo scoperto quando il gioco per il Colle entrerà nel vivo. E l’abile manovratore Pierferdy? Possibile che non si sia accorto che c’è puzza di bruciato in giro? Per la verità ieri ha cominciato ad annusare qualcosa, ma è lontano dal plot vero, non ha capito che nella tagliola finirà il suo progetto politico. «Se si continua così il Governo prima o poi entra in crisi sul serio e sarebbe un atto di irresponsabilità allo stato puro», ha detto ieri con tono grave. Casini quando dice queste cose pensa sempre che riguardino gli altri. In realtà stavolta riguardano lui. Perché il governo Monti è anche una sua idea, perché è l’unico investimento serio sul futuro che può fare, perché la sua idea di scomposizione del quadro politico e ricomposizione dei moderati in un altro partito fallisce se il Pd prepensiona Monti, perché se la coalizione che va al voto è quella tra Bersani, Di Pietro e Vendola. a lui, Pier dei miracoli, resta da trattare un appoggio residuale e forse ne ricava la presidenza del Senato, ma poi basta. Un po’ poco per un aspirante leader della nazione. Con il paradosso di aver consegnato al Pd, probabile vincitore delle elezioni in un quadro terremotato, la possibilità di avere la maggioranza nelle Camere e due forni dai quali comprare il pane, prima quello di Vendola e poi quello suo se Nichi dovesse fare il matto. L’Udc come ruota di scorta del dalemismo reloaded, edizione di un patto sinistra-centro che avrebbe la pallottola d’argento per far fuori vent’anni di centrodestra in un colpo solo. Andare al voto, prendere Palazzo Chigi con Bersani, dare a Prodi il Quirinale, consegnare a Casini un contentino e subito dopo scrivere da solo le riforme, mettendo tutta l’esperienza del berlusconismo dal 1994 a oggi nel cassetto del "meglio dimenticarli". Monti? Un marziano. Napolitano? Grazie, si accomodi. Berlusconi? In esilio. Il Pdl? Un partito di reduci, egemonizzato dai "destri"ringhianti e non da riformisti intelligenti che pure non mancano, incapace di aprire al centro, marginalizzato. Vent’anni dopo, si riparte da qui. Non un’evoluzione della Repubblica, ma una restaurazione.