Pregi e insidie della riforma
La maratona del confronto sulla riforma del lavoro si è chiusa con un'originalità che ha molti pregi al di là dei contenuti. Al termine della trattativa, infatti, Monti ha steso un verbale registrando convergenze, accordi sofferti, disaccordi totali e ogni smorfia di dolore o di sorriso. Insomma una trattativa che non si è chiusa né con un accordo né con una rottura, ma solo con un verbale. Ma Monti si sta dimostrando più "politico" di quanto si potesse pensare accostandosi alla tradizione democristiana. Non potendo sbandierare un successo fortemente cercato ha fatto di necessità virtù e ha spiegato che, "dopo l’ascolto approfondito delle forze sociali", è giusto che a decidere sia il Parlamento secondo i dettami costituzionali. Grazie davvero, signor presidente, per averlo ricordato ai parlamentari e a tutti noi dopo venti anni di follie durante i quali, molto spesso, il Parlamento era chiamato solo a prendere atto degli accordi tra sindacati e governo a Palazzo Chigi. Quel che, forse, non sa il premier è che nella prima repubblica era questo il metodo dei rapporti tra governo, Parlamento e forze sociali. Il governo le ascoltava ma poi andava in Parlamento al quale le stesse forze sociali chiedevano di essere ascoltate in apposite audizioni secondo un costume e una cultura anch'esse antiche per le quali i contratti prevedono una trattativa nel mentre le leggi prevedono solo audizioni. In verità questa anomalia la rilevò, nella seconda metà degli anni ’90 ( governo Prodi), Bertinotti che sentiva l’umiliazione delle Camere chiamate solo a mettere la firma "legislativa" sugli accordi tra governo e forze sociali. La concertazione, infatti, è figlia della seconda repubblica durante la quale il Parlamento e i partiti, una volta smarrita la propria autorevolezza, si avvalevano di quella dei sindacati. Un ripristino di metodi antichi e perciò stessi moderni, dunque, quello che ha annunciato Monti, anche se non ci sfugge che vi è stato costretto. Ma meglio guardare al bicchiere mezzo pieno. Detto questo sul metodo, i contenuti sembrano di buona qualità anche se nel verbale governativo non ci sono le norme ma solo direzioni di marcia e, come si sa, è nella stesura delle norme che si nasconde il diavolo. La modifica dell'art. 18 (reintegro per i licenziamenti discriminanti, indennizzo o reintegro a giudizio di un magistrato per quelli disciplinari e indennizzo forte per quelli di natura economica) sembra ispirata al buon senso. C'è da domandarsi, piuttosto, se le aziende che devono ridurre il personale per ragioni economiche avranno le risorse per dare un indennizzo che va da 15 a 27 mensilità. Altrettanto saggia ci sembra l'istituzione dell'Aspi (assicurazione sociale per l'impiego) che dopo il 2017, sostituirà l'indennità di mobilità fermo restando gli ammortizzatori sociali eccezion fatta per la cassa in prepensione in deroga. Tutti dicono giustamente che questo rappresenta un salto di qualità culturale perché si passa dalla tutela di un posto di lavoro, che molto spesso non tornerà più, alla protezione del lavoratore. Principio giusto: ma quando leggiamo che l'Aspi poi durerà 12 mesi per i lavoratori con meno di 54 anni e 18 mesi per quelli di età superiore e che dopo tre anni di precariato si viene assunti ci sorgono interrogativi inquietanti. Questa riforma a regime sarà valida e sostenibile se c'è una crescita permanente, perché diversamente le strade si riempiranno rapidamente di disoccupati senza lavoro né reddito. Non dimentichiamoci, infatti, che l'Italia dal 1995 cresce pochissimo o non cresce affatto grazie anche, ma non solo, al crollo dell'incremento annuale della produttività oraria di lavoro. Su questo terreno da 17 anni governi e maggioranze non hanno fatto quasi nulla e lo stesso governo tecnico, dopo 4 mesi, resta in un silenzio assordante. Infine bisognerà fare grande attenzione sui costi che si trasferiscono sulle aziende e sui lavoratori che rischiano di fare impennare quel cuneo fiscale del costo del lavoro che resta uno dei motivi della caduta della competitività del nostro sistema produttivo. Staremo a vedere e ad esaminare nei dettagli il disegno di legge del governo che, auspichiamo, non vorrà ricorrere a un decreto legge per una riforma che, in larga parte, entrerà in vigore tra 5 anni.