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Se fallisce la riforma del lavoro ripiombiamo nel rischio default

Il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, con il premier Mario Monti

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«Sappiamo già che il Pil nel primo trimestre 2012 non è andato bene a causa della caduta dei consumi»: il presidente dell'Istat, Enrico Giovannini, ha parlato mentre si riuniva l'ennesimo e insoddisfacente tavolo sulla riforma del mercato del lavoro. Dopo due trimestri in calo nel 2011, la recessione già acquisita quest'anno è dunque dello 0,5 per cento. Ma è solo l'ipotesi meno peggiore: si rischia di chiudere tra meno 1,2 e meno due. Ecco: se non si parte da qui, non si capisce molto del rischio che incombe sull'Italia nel caso che si fallisca l'occasione di una riforma seria, e che sindacati e industriali non mettano da parte egoismi e parole d'ordine vecchie di decenni. Come ha scritto ieri Mario Sechi la tempesta speculativa che nel 2011 ha preso di mira i debiti pubblici, facendo saltare come tappi i rispettivi governi, si è solo temporaneamente calmata. Anzi, l'esito del mezzo default greco lascia la porta aperta ad una rivalsa che potrebbe prendere di nuovo di mira Atene, oppure un altro paese debole. L'Italia di Mario Monti rispetterà in qualche modo il pareggio di bilancio – da qui la discesa dello spread – magari con l'aumento Iva di settembre che andrà a rimpolpare un prelievo fiscale record. Ma è sull'economia reale, cioè lavoro, investimenti e produttività, che restiamo gravemente scoperti: e questo, con un mercato finanziario pari a quasi dieci volte il Pil mondiale, rischia di trasformarci di nuovo in una preda. Un anno fa tra derivati, obbligazioni e borse l'attività finanziaria mondiale ammontava a 620 miliardi di dollari. Da allora le azioni e il mercato obbligazionario hanno ripreso a correre alimentando i timori di una nuova bolla che scoppi da qualche parte. È una gigantesca nuvola nella quale, ha appena rilevato Bloomberg, si distinguono tra le banche Bnp Paribas, Hsbc, Deutsche Bank, tra i fondi il colosso americano BlackRock, poi gli hedge fund e quindi i fondi sovrani russi, asiatici e arabi. Senza trascurare gli oltre mille miliardi iniettati dalla Bce di Mario Draghi. Come ha ancora scritto Sechi, «i trader fanno il loro lavoro, speculano». Perché non si trasformino in locuste come nel 2008 negli Usa, e nel 2011 da noi, non bisogna farsi trovare impreparati. E qui arriviamo alla faccenda del mercato del lavoro. Gli americani, dopo aver gonfiato ben bene la speculazione e nonostante le debolezze della politica di Barack Obama, hanno fatto scattare i tradizionali meccanismi auto-protettivi: il denaro prestato dalla Casa Bianca e dalla Fed sta tornando a casa con buoni interessi; i sindacati hanno negoziato in modo autonomo nuovi modelli di welfare. Come nella Chrysler, mettendo in gioco fondi pensione e assistenza sanitaria, oltre ai turni ed orari. Il risultato sono 1,2 milioni di posti di lavoro privati creati negli ultimi sei mesi nel settore privato; ed una ripresa dei consumi che si è vista abbondantemente nell'auto. Gli Usa hanno così evitato la recessione «double dip», a forma di W. Dove i picchi in basso sono causati prima dalla finanza e dopo dalla concomitanza di bassa crescita, bassa produttività, bassi stipendi, bassi consumi. Anche Germania e Gran Bretagna sembrano aver scongiurato questo rischio, che è invece esattamente ciò che incombe sul nostro Paese. E lo dimostra proprio l'andamento della trattativa sul lavoro. I sindacati difendono con varie gradazioni l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Una legge nobile, ma di 42 anni fa: quando le grandi imprese, molte pubbliche, la facevano da padrone senza preoccuparsi della competizione globale, per il semplice motivo che non esisteva. Al tempo stesso la Confindustria, dopo aver organizzato convegni su convegni sul modello tedesco o sulla flexsecurity danese, ora scopre che entrambi hanno un costo, e salato. Tutti e due, sindacati e Confindustria, fingono poi di ignorare che la flessibilità in entrata ispirata da Marco Biagi è stata in gran parte tradita e a suon di contratti precari, spesso illegali, e di retribuzioni al limite del terzo mondo. Uno scambio al ribasso per il quale non c'è stato neppure bisogno di concertazione: «Ti pago poco e ti assumo peggio». Questa è la realtà degli ultimi anni, che ha colpito soprattutto i giovani, ma ha anche ridotto le famiglie alla condizione di non poter più consumare e risparmiare. Tutto il resto, dalle piazze ai convegni e agli appelli, sono chiacchiere. Ovviamente una grande mano l'ha data uno Stato sempre più vorace con le tasse e inefficiente nelle spese e nei servizi. Il risultato è che nel decennio 2000-2010 l'Italia ha aumentato il tasso di occupazione sulla popolazione attiva dal 53,7 al 56,9 per cento. La Spagna dal 56,3 al 58,6. La Francia dal 62,1 al 63,8. La Germania dal 65,6 al 71,1: siamo piombati all'ultima posizione tra le grandi economie europee. Al tempo stesso la nostra produttività, che era superiore a quella di Gran Bretagna e Francia, è oggi penultima prima della Grecia. Ciò significa che abbiamo aumentato le tutele? Niente affatto: l'indice di flessibilità (i licenziamenti in rapporto alle assunzioni) è da noi superiore a quello di Germania, Francia, Spagna e Svezia. Mentre per le politiche del lavoro lo stato italiano spende meno di tutti i principali partner – l'1,84 del Pil contro il 2,26 della Germania, il 2,57 della Francia, il 3,9 della Spagna – e ciò che è peggio impiega malissimo le risorse. Alle politiche attive di ricollocamento dei disoccupati destiniamo lo 0,35 per cento: meno della metà della Francia, un quarto della Danimarca. Siamo invece al di sopra delle medie europee come sussidi alle imprese. A coronamento di tutto, c'è la fuga massiccia di investimenti esteri, anche da settori di eccellenza come la meccanica di precisione e la farmaceutica. Questa è la realtà, questi gli interessi in gioco dietro gli slogan degli uni e degli altri. Se non la si comprende, non solo continueremo a declinare nell'economia, nel lavoro e nel benessere sociale; ma andremo incontro ad un secondo rischio fatale, dopo l'anno dello spread.

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