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Rabbia Pdl: così la riforma rischia di fallire

Il presidente del Senato Renato Schifani

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La riforma del lavoro «era da fare» ma non senza una «discussione in Parlamento». Giorgio Napolitano detta la linea e a Mario Monti non resta che prenderne atto e formalizzare, durante un Consiglio dei ministri durato più di cinque ore, che il testo che arriverà in Aula sarà un disegno di legge e non un decreto. In altre parole il governo non si avvarrà di un provvedimento provvisorio avente forza di legge ma arriverà all'approvazione della riforma solo dopo un ampio dibattito parlamentare. Una scelta che ha immediatamente acceso il dibattito tra Pdl e Pd che, su un tema così delicato, hanno dato dimostrazione di avere posizioni diametralmente opposte. E così ad alzare le barricate si sono trovati esponenti di primo piano del Popolo della libertà come l'ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, che ha visto nella decisione del governo «un atto di resa ai veti ideologici e la rinuncia a quel vero cambiamento così atteso dalle istituzioni comunitarie e internazionali». Posizione sostenuta anche da Massimo Corsaro, vice presidente del Pdl alla Camera per il quale si tratta di «una allarmante battuta di arresto nella presunta volontà riformatrice dell'esecutivo» che «sin qui aveva addirittura abusato dello strumento di decretazione» e che oggi «improvvisamente» toglie «l'urgenza sul provvedimento più atteso dall'Europa, dalle imprese e dagli investitori». Ma gli scenari più impietosi sono stati ipotizzati dagli ex ministri Altero Matteoli e Ignazio La Russa. Il primo che, da parlamentare di lungo corso, vede per il ddl tempi di approvazione talmente lunghi che potrebbero costringere Monti a fare i conti con il suo «primo clamoroso fallimento». L'altro che invece non solo ha minacciato «squilibri politici» ma ha chiesto una convocazione immediata dell'ufficio di presidenza del Pdl. Chi invece riesce a tirare un respiro di sollievo è Pier Luigi Bersani che, grazie alla decisione del governo, è riuscito a ricompattare le varie anime dei democratici sedando i bollenti spiriti di quei colleghi di partito contrari alla modifica dell'articolo 18. E così, se in mattinata il segretario del Pd aveva lanciato un dicktat anti-decreto dicendosi fiducioso che «si potrà ragionare, se no chiudiamo il Parlamento» arrivando ad attirarsi le ire di Angelino Alfano («a suon di minacce non si va da nessuna parte»), nel pomeriggio ha esultato seguito, tra i primi, dall'ex segretario Walter Veltroni che, oltre a vedere con preoccupazione le ripercussioni che la modifica dell'articolo 18 avrà sui lavoratori che hanno un contratto a tempo indeterminato, ha definito «importante e responsabile» la scelta di non varare la riforma tramite un decreto. Dichiarazione condivisa dalla presidente del partito, Rosy Bindi, che, non solo ha annunciato un importante lavoro in Parlamento «per migliorare quei punti che non ci convincono» ma ha anche espresso parole di meraviglia per le parole del presidente del Senato, Renato Schifani, che in mattinata aveva auspicato il ricorso alla decretazione d'urgenza. E, se i parlamentari del Pd, si preparano alla discussione, i Democratici che siedono in Consiglio regionale del Lazio, Dalia, Scalia, Coratti, Policastro, Zambelli, Carpenella hanno rivolto un pressante invito affinché il testo venga modificato» dato che la riforma dell'art. 18 contrasta con quanto dettato dall'art. 2 della Costituzione e con i principi ispiratori della dottrina sociale della Chiesa.

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