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Un salto nel futuro

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Con un vizio tipico del nostro palazzo politico-mediatico, la riforma del mercato del lavoro viene giudicata largamente in termini politici. Chi ci ha rimesso? Come farà la Cgil isolata? Riuscirà il Partito democratico a tenere assieme le due anime che lo compongono, quella di lotta e quella di governo, quella socialista e quella dc? Infine: salterà l'asse Bersani-Camusso? Ieri sera, a Porta a Porta, abbiamo notato un infuriato Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, evocare nientemeno che una sorta di complotto «delle destre europee che governano in 24 paesi su 27». Se il sindacato e il Pd, anziché pensare ai 24 governi di destra avessero dedicato più attenzione alle 26 forme di contratto del lavoro giovanile, avrebbero impiegato meglio energie e influenza. E soprattutto avrebbero evitato l'imbarazzo di fronte a una riforma che può essere migliorata – il Parlamento è lì per questo – ma che costituisce un indubbio passo avanti rispetto alla situazione attuale. Si ritiene che il mercato del lavoro italiano sia oggi un esempio di successo? È questo che pensano i difensori dell'esistente? I nostalgici della concertazione globale? Quel sistema assomiglia ad un Frankenstein. Alla base c'è lo Statuto dei Lavoratori del 1970: come abbiamo scritto, una legge nobile ma figlia di un'epoca nella quale l'industria era in mano principalmente alle grandi imprese, private e soprattutto pubbliche. E nessuno si doveva scontrare con la concorrenza generata da una globalizzazione che neppure si immaginava all'orizzonte. Allora la maggiore insidia per l'Occidente si chiamava Giappone, le cui merci venivano contingentate. La Cina era una fortezza maoista, la Russia il nemico della Guerra Fredda, il Brasile una dittatura con annessi Copacabana, Pelé e Joao Gilberto. Per non parlare della Turchia, del Vietnam, della Tailandia, della Yugoslavia. A questa base si è sovrapposta negli anni Duemila quella che è stata impropriamente chiamata legge Biagi. Impropriamente, perché la flessibilità immaginata da Marco Biagi per favorire i giovani e la mobilità si è trasformata, sotto lo sguardo distratto di Confindustria, sindacati e politici di tutti i colori, in precarietà spinta, sfruttamento e illegalità. Gli stage sono stati utilizzati per tappare buchi di organico, e gratis. Partite Iva fasulle hanno preso il posto dei dipendenti. Il tutto al di fuori dell'articolo 18. Dov'erano gli scandalizzati di oggi? Ma soprattutto questa situazione ha generato due conseguenze. La prima: le grandi industrie, appesantite dalle rigidità sindacalizzate, non hanno retto la concorrenza. Hanno chiuso, delocalizzato, ridimensionato. Certo anche per ignavia di azionisti e manager, ai quali un simile sistema garantiva alibi, sonni tranquilli e ricchi dividendi. La seconda conseguenza: il famoso articolo 18, applicabile alle aziende oltre 15 dipendenti, ha condannato al nanismo il tessuto imprenditoriale bloccando il credito, la ricerca, l'espansione all'estero. Nel frattempo però la tanto lodata concertazione sfornava contratti nazionali e intere politiche di governo, dal fisco alla casa. Con questi capolavori abbiamo ottenuto il doppio risultato di precipitare nelle graduatorie mondiali di competività e delle retribuzioni. Il posto fisso e garantito è diventato più importante del giusto reddito, del merito e del risparmio. Mentre le legioni di precari continuavano ad avanzare: attualmente su dieci assunti otto sono con contratti atipici. Altra aberrazione: siamo sì sotto la media europea di disoccupazione, ma mascherando con la cassa integrazione ordinaria, straordinaria e in deroga. Così figurano come occupati dipendenti la cui azienda ha chiuso i battenti da anni. La riforma Monti-Fornero ha il merito di infrangere tutti questi tabù. Si riducono drasticamente i contratti precari, si abolisce di fatto la soglia dei 15 dipendenti. Le tutele riservate agli adulti vengono estese ai giovani. Certo: si dà il diritto di licenziare per cause economiche, cioè per motivi di produttività o ristrutturazione. Qui si vedrà il valore e la lungimiranza della nostra classe imprenditoriale: il conto da pagare per un licenziamento di questo tipo è piuttosto salato, interamente a carico dell'azienda, superiore agli attuali «scivoli». È un deterrente, ma non deve essere l'unico: non si fa impresa senza buoni e formati dipendenti. Ci sono ancora buchi da colmare: per esempio un valido raccordo tra scuola e produzione. Quanti hanno tuonato contro la riforma dell'università (gli stessi che oggi scioperano per l'articolo 18) dovrebbero ricordare come essa funziona all'estero. Google, Sun Microsystem, Yahoo sono nati negli Usa alla Stanford University grazie ai sussidi iniziali del consiglio accademico, in cambio di una scommessa su possibili royalties. In quel consiglio siedono manager di fondi e ricchi privati, che tuttavia non possono orientare la didattica. E infatti qual è la specialità della Stanford? Non l'informatica che ha generato miliardi, né la finanza: è la filosofia.

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