Se una fotografia cambia la politica
In un misto di furbizia e di eterna goliardia, che il povero Flaminio Piccoli decise di non perdonargli più quando se ne sentì particolarmente danneggiato per l'estro che aveva fornito ad un micidiale "controcorrente" di Indro Montanelli, spintosi a dargli praticamente del pazzo, Pier Ferdinando Casini è riuscito con una foto a moltiplicare i problemi di Pier Luigi Bersani. È quella da lui postata su Twitter per il vertice dell'altra sera a Palazzo Chigi. Che lo ritrae seduto e sorridente, in primo piano, davanti ad un caminetto accanto ad Angelino Alfano e allo stesso Bersani, anche loro seduti, e ad un presidente del Consiglio rigorosamente in piedi, e con la giacca abbottonata, diversamente dai suoi ospiti non dico sbracati, ma quasi: specialmente Casini, con quella bretella rossa bene in evidenza, magari regalatagli da Giuliano Ferrara. Il quale ne fa largo uso per l'impossibilità di contenere in altro modo una pancia grande quanto la sua bravura. Sostenitore delle larghe intese politiche di marca montiana non solo per l'oggi ma anche per il domani e il dopodomani elettorale dell'anno prossimo, Casini è riuscito a tradurre e fissare con quell'immagine il suo progetto sapendo benissimo, da marpione com'è, che avrebbe trovato grandissima accoglienza sui giornali a corto di notizie sull'incontro. Invitato ieri a spiegare se quella foto fosse destinata a sostituire l'altra dello scorso autunno, che lo ritrasse a Vasto con Nichi Vendola e Antonio Di Pietro, suoi potenziali alleati di governo, Bersani ha vacillato. Ed ha cercato di recuperare un po' a destra e un po' a sinistra: a destra dicendo che anche alla foto di Vasto «mancava il sonoro», come a quella recentissima nel Tempio romano di Adriano con il solo Vendola, in occasione della presentazione di un libro di Federico Rampini, e a sinistra sottolineando le ben «sei ore» impiegate l'altra sera a Palazzo Chigi per sciogliere solo parzialmente i nodi del confronto. Sono infatti rimasti da definire, sia pure in un clima meno teso di qualche giorno prima, quelli della Rai e in fondo anche della riforma del mercato del lavoro, visto che la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso è tornata proprio ieri ad avvertire che non è per niente convinta delle preannunciate modifiche, o della «manutenzione», come la chiama Bersani, dell'articolo 18 dello statuto dei diritti dei lavoratori: quello sui licenziamenti nelle aziende con più di quindici dipendenti. E se dovesse mancare il sì della Cgil, dove c'è una minoranza agguerrita che non vuole saperne, Bersani potrebbe rischiare guai grossi nel Pd. Certo, con la sua foto - sua nel senso che ha voluto e saputo utilizzarla telematicamente al meglio - Casini ha arricchito un archivio che non si sa bene se si possa assegnare ancora alla cosiddetta seconda Repubblica, o non si debba invece attribuire alla transizione d'imprevedibile durata fra la seconda e la terza Repubblica. Alla cui nascita occorrerebbero una nuova legge elettorale ed anche una riforma della Costituzione: una riforma vera, organica, non quella un po' striminzita in cantiere, o quella ancora più ridotta che è stata suggerita qualche giorno fa da Enrico Letta, il vice di Bersani, limitata alla riduzione del numero dei parlamentari, nel timore che mettendo altra carne al fuoco non si riesca a cuocere neppure questa. La foto, chiamiamola così, di Casini si aggiunge quindi, senza sostituirla, a quelle di Vasto o del Tempio di Adriano. E, prima ancora, a quella galeotta di Silvio Berlusconi, quando era ancora presidente del Consiglio, con il suo più accanito cacciatore, che è Antonio Di Pietro: una foto ripresa nell'aula di Montecitorio fra la sorpresa, anzi l'irritazione di Bersani, Massimo D'Alema, Dario Franceschini ed altri professionisti dell'antiberlusconismo. E, prima ancora, a quella del Cavaliere, sempre alla Camera, e da presidente del Consiglio, con la mano affettuosamente appoggiata sulla testa di un Umberto Bossi al solito indeciso tra la voglia e la paura di staccargli la spina. E, prima ancora, a quella di un Gianfranco Fini furioso, nella prima e unica riunione di "direzione" del Pdl svoltasi alla sua presenza, con il dito di sfida puntato contro il Cavaliere a chiedergli: «Che fai, mi cacci?». Il sonoro quella volta non mancò. E seguì davvero la rottura. Altre foto celebri o emblematiche della seconda Repubblica possono essere considerate, risalendo alle origini, quelle di Berlusconi davanti alla telecamera per l'annuncio della sua «discesa in campo»; di Bossi in canottiera in Sardegna, nell'estate del 1994, già sofferente per il governo appena costituito dal Cavaliere e destinato ad essere da lui rovesciato dopo qualche mese; del Cavaliere tornato dopo qualche anno sui palchi elettorali con il capo leghista, Casini e Fini, a giurarsi amicizia e lealtà, o del Cavaliere, sempre lui, ripreso di spalle a deporre in tribunale a Milano, nel primo della lunga lista dei processi che ne avrebbero accompagnato e sgambettato il percorso politico; o del Cavaliere, sì, sempre lui, in bandana per le strade di Porto Rotondo con i coniugi Blair in trasferta dal mitico numero 10 di Downing Street. Ma appartengono a questa galleria anche le foto della folla scatenata davanti al Quirinale o alla residenza romana di Berlusconi la sera delle sue dimissioni da capo del governo, sinistramente simili, sotto tutti i punti di vista, a quelle dell'epilogo della prima Repubblica, nel 1993, con gli insulti e le monetine lanciate contro Bettino Craxi.