L'infinito giudizio su Dell'Utri
Eppure, nonostante il "sollievo" umanamente comprensibile, espresso o attribuito al senatore Marcello Dell'Utri per non avere dovuto costituirsi l'altra sera a Rebibbia, da lui stesso individuato come il penitenziario più sopportabile per una sua esperienza da detenuto, ha l'amaro sapore di un compromesso il verdetto della Cassazione che ha disposto a suo carico un secondo processo d'appello, con altri giudici ma sempre a Palermo. Dove nel 2010 gli fu comminata una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa a 7 anni di carcere, con uno sconto di due rispetto alla sentenza di primo grado del 2004 anche per effetto dell'assoluzione, impugnata dall'accusa, per le contestazioni di fatti successivi al 1992. Su cui tuttavia indagavano già da tempo, e continuano a indagare più o meno sotto traccia un bel po' di altri magistrati, sospettosi di una sinergia avvenuta proprio in quellepoca fra i progetti politici dello stesso Dell'Utri e di Silvio Berlusconi, sfociati nella formazione di "Forza Italia" e nella vittoria elettorale del 1994, e le stragi di mafia. Addirittura le stragi, quelle del 1993, consumate o tentate tra Roma, Firenze e Milano mentre la Prima Repubblica tirava miseramente le cuoia, assediata dalle indagini delle Procure di mezza Italia sul finanziamento illegale dei partiti e delle loro correnti, e sulla corruzione che spesso l'accompagnava. Ed era portata anche da questa debolezza, secondo gli stessi inquirenti tentati dalla pista di Berlusconi e Dell'Utri, a giocare la carta di una disperata "trattativa" segreta con la mafia per contenerne l'aggressività. Il sentore del compromesso dietro o sotto il palco del verdetto dell'altra sera della Cassazione sul processo di mafia al senatore Dell'Utri deriva da tre fatti obbiettivi. Il primo è una certa campagna critica condotta nelle scorse settimane da un giornale colpevolista come "Il Fatto quotidiano" verso la quinta sezione della Cassazione, quella investita appunto del processo a Dell'Utri, e il suo presidente Aldo Grassi: una campagna tale da fare aprire al Csm una pratica "a tutela". Che è stata menzionata nel suo intervento in udienza dal sostituto procuratore generale Francesco Iacoviello per incoraggiare i giudici a prendere decisioni coraggiose a favore dell'imputato. Il secondo fatto è costituito proprio dalla posizione processuale assunta dal rappresentante dell'accusa, che è stato in qualche modo ancora più duro della difesa nel criticare la sentenza di condanna e la consistenza dello stesso reato di concorso esterno in associazione mafioso: tanto generico ed ambiguo che "non ci crede più nessuno", ha detto il magistrato, ripeto, d'accusa, procurandosi ieri gli attacchi dei soliti "professionisti dell'antimafia", come li chiamava Leonardo Sciascia. Il terzo fatto, infine, consiste nella soluzione mediana oggettivamente costituita dal verdetto cassazionistico. Non si è avuto, in particolare, né il semplice e risolutivo annullamento della condanna, comepure sarebbe potuto avvenire anche di fronte alla posizione dell'accusa, né una conferma altrettanto risolutiva della sentenza impugnata, o addirittura il suo aggravamento, come richiesto dalla Procura ricorrente di Palermo per estenderla ai fatti successivi al 1992. Si è invece disposto, come in una matrioska, un nuovo processo d'appello. Che si svolgerà con altri giudici, come si è già detto, ma sempre a Palermo. Dove l'imputato ha avuto la sventura di nascere, conoscere e frequentare tanta gente del posto, ma anche quella ancora più grande di finire nel tritacarne di una terribile vicenda giudiziaria che si trascina dal 1994. Che non fu solo l'anno delle accuse a Dell'Utri del pentito di mafia Salvatore Cancemi, ma anche quello del già ricordato esordio politico di Berlusconi. Una coincidenza che ci vuole un santo a considerare casuale. E che possiamo tranquillamente definire diabolica, senza il timore di esagerare e procurarci guai. Già forte di suo per i fatti, le circostanze e gli argomenti sinora esposti, il sospetto di una soluzione compromissoria uscita dalla quinta sezione della Cassazione si consolida ulteriormente considerando che la prescrizione per le accuse mosse a Dell'Utri scatterà fra poco più di due anni, nel giugno del 2014. Ebbene, da qui ad allora è francamente difficile pensare che possa arrivare ad un semplice e pieno verdetto di condanna o di assoluzione l'appendice processuale appena disposta dalla Cassazione. La seconda sentenza d'appello chiesta dai supremi giudici sarà sicuramente impugnata daccapo: o dall'accusa in caso di assoluzione dell'imputato, specie se totale, ma forse anche se parziale, come è già accaduto nel 2010, o dall'imputato in caso di nuova condanna. I tempi medi dei processi e la obbiettiva complessità di quello riguardante Dell'Utri, che non a caso ha impiegato diciotto anni per compiere il percorso dei primi tre gradi di giudizio, autorizzano a temere che non si riuscirà in poco più di due anni ad evitare la tagliola della prescrizione. Scattando la quale il processo giudiziario finirebbe, grazie a Dio, e con esso il rischio del carcere per l'imputato, ma potrebbe continuare all'infinito, a tutto beneficio dell'accusa, il processo mediatico sulle presunte responsabilità di Dell'Utri. Come è accaduto e accade per i processi prescritti di Berlusconi, o per quello di mafia ad Giulio Andreotti. E tutto con il solito, provocatorio condimento di sfide, o di rimproveri all'imputato di non avere rinunciato alla prescrizione per inseguire un verdetto pieno di assoluzione. È un condimento provocatorio perché richiede all'interessato una fiducia non civica ma eroica nel modo in cui viene amministrata la giustizia in Italia, almeno dai tempi del povero Enzo Tortora.