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«Le sentenze si rispettano». Ma la regola non vale per tutti

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Quantevolte avrete sentito ripetere questa frase. Normalmente succedeva ogni volta che un processo a carico di Silvio Berlusconi arrivava a conclusione. Una parte politica contestava l'assoluzione, o la condanna, è l'altra la rimproverava. Ma erano, appunto, schermaglie tra partiti. Il problema si amplifica quando sono gli stessi magistrati a criticare e mettere in dubbio la legittimità del lavoro dei colleghi. È il caso della sentenza su Marcello Dell'Utri che ha mandato su tutte le furie, tra gli altri, due famose toghe: il procuratore capo di Torino (ex procuratore a Palermo) Giancarlo Caselli e il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Il primo se l'è presa soprattutto con il procuratore generale della Suprema Corte Francesco Iacoviello che, nella sua requisitoria, aveva sposato le tesi della difesa del senatore Pdl spiegando che ormai «nessuno crede più» al reato di concorso esterno in associazione mafiosa. «Le sue affermazioni - ha spiegato intervistato da Repubblica - sono quantomeno imbarazzanti». Ricordando poi che quelle parole non hanno «ferito solo me, ma Giovanni Falcone che ha teorizzato e concretizzato nei maxiprocessi il concorso esterno». Sulla stessa lunghezza d'onda Ingroia intervistato dal Fatto Quotidiano: «Spero che questa sentenza non si trasformi nel colpo di spugna finale al metodo Falcone». Insomma, il pg, e con lui la Cassazione, hanno sbagliato. E alla grande. Sia chiaro, nessuno vuole vietare il diritto di critica, però è difficile non ricordare quello che scrissero Anm e Csm quando il Cavaliere nel 2003, dopo la sentenza su Cesare Previti, attaccò i giudici. «A nessuno - scriveva il sindacato delle toghe - è consentito delegittimare la magistratura: è una regola fondamentale del corretto funzionamento delle istituzioni democratiche». E da Palazzo dei marescialli rincaravano la dose: «Le pronunce degli organi giudicanti di ogni ordine e grado possono essere liberamente criticate. Ma l'esercizio di tale diritto non deve tradursi in prese di posizione tali da delegittimare l'attività giudiziaria». Cosa è cambiato in questi 9 anni? Bisognerebbe chiederlo a Ingroia e Caselli. Nel frattempo tocca a Cosimo Ferri, toga più votata dell'Anm, richiamare i colleghi all'ordine: «Noi magistrati dobbiamo essere i primi a credere nell'indipendenza e nell'autonomia dei giudici e a ricordare che questi principi valgono anche per il pm in udienza. Per questo devono cessare gli attacchi frontali rivolti ad alcuni giudici della Cassazione e al pg. Non esiste un partito della magistratura, ma questi scontri interni possono dare una simile immagine all'esterno, favorendo una delegittimazione dell'intera magistratura».Nic. Imb.

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