Quel Colle che seduce Casini e Prodi
Occhio e orecchie a ciò che accade nel Pd, dietro ad un palcoscenico già agitato di suo per le scadenze che attendono il partito nell'immediato, o quasi, fra sciopero dei metalmeccanici, negoziato tra governo e sindacati su riforma del mercato del lavoro e articolo 18 sui licenziamenti, primarie per le elezioni comunali del 6 maggio e «secondarie», come Pier Luigi Bersani chiama l'appuntamento vero con le urne: quello in cui si misureranno i reali rapporti di forza con alleati e avversari, al netto dei soliti candidati di altri movimenti di sinistra che lui per primo dovrà subire sotto una maschera di soddisfazione. È già accaduto a Napoli, Milano e Cagliari. E accadrà probabilmente a Genova e a Palermo. Dietro al palcoscenico del partito, dove sono confluiti da poco più di quattro anni gli eredi del Pci e della sinistra democristiana producendo «un amalgama mal riuscito», come riconobbe una volta con franchezza il solito, impietoso Massimo D'Alema, si avverte un fastidio crescente per un certo asse emerso fra Walter Veltroni e Pier Ferdinando Casini. I quali sono accomunati in un «cinguettio» sempre più fitto, come lo chiama un vecchio amico di Romano Prodi, sulla opportunità di prolungare l'esperienza dell'attuale presidente «tecnico» del Consiglio, anche dopo le elezioni politiche generali dell'anno prossimo, viste la natura costituente che dovrà forse assumere la nuova legislatura e, soprattutto, la prevedibile permanenza della crisi economica. Nella «grande coalizione anche dopo il 2013», appena riproposta da Casini in una intervista a «La Repubblica» e riferita ieri con un grosso titolo interno da «l'Unità», lo storico giornale del vecchio Pci, la notista politica Susanna Turco ha indicato lo scenario adatto a fare «esprimere con qualche fondamento l'aspirazione del leader dell'Udc di succedere a Napolitano» al Quirinale. «Avendo tolto di mezzo – osservava la notista de "l'Unità" – il pretendente più ingombrante: Monti». Che rimarrebbe infatti, in quello scenario, a Palazzo Chigi. Accanto a questa nota il giornale del Pd pubblicava ieri un ancora più corposo e significativo commento di Francesco Cundari per confutare la proposta di Casini, e forse anche la sua candidatura al Quirinale intravista da Susanna Turco, con parole che probabilmente dicono ciò che per ragioni diplomatiche non si sente ancora di affermare il segretario del partito. «Con la sua proposta – ha scritto Cundari, rivolgendosi probabilmente anche a Veltroni e ad altri compagni che nel Pd l'appoggiano o la condividono – il leader dell'Udc rischia di dare involontario aiuto proprio a chi accusa i tecnici di pensare più al consenso necessario a prolungare la loro esperienza di governo che al bene del Paese». E ancora: «Ma soprattutto accredita la brutta immagine di una democrazia commissariata, in cui c'è un solo governo, una sola maggioranza e soprattutto una sola linea politica possibile, a prescindere dal voto degli elettori». I quali si sentirebbero perciò incoraggiati da una simile prospettiva a disinteressarsi ancora di più dei partiti e delle stesse urne, cui verrebbero chiamati per finta, o quasi. Sono, come si vede, argomenti duri. Anzi durissimi. Quasi quanto la reazione opposta qualche giorno fa dall'ex presidente del Consiglio Prodi, considerato da parecchi suoi amici anche lui con tutte le carte in regola per aspirare al Quirinale, ad una rivelazione sfuggita a Veltroni in una intervista sintonica con il giudizio che dà Casini dell'esperienza di governo di Monti e delle sue prospettive. Che cosa aveva detto, in particolare, Veltroni di così «allucinante» per Prodi e i suoi amici? Egli aveva rimpianto, commentando lo stato attuale dei rapporti interni di partito, gli anni e le occasioni in cui lui e D'Alema, pur considerati eterni rivali o concorrenti, riuscivano a discutere di cose grandi e concrete. E aveva elencato, fra queste, anche se e come far cadere Prodi. Il che era accaduto due volte in dieci anni. La prima nel 1998, quando il professore emiliano fu sgambettato alla Camera da Fausto Bertinotti, e costretto a rinunciare ad una legittima aspirazione alle elezioni anticipate per un accordo intervenuto appunto tra il suo allora vice presidente del Consiglio Veltroni e l'allora segretario del Pds D'Alema: un'intesa in forza della quale il primo andò alla segreteria del partito e il secondo a Palazzo Chigi, con il soccorso parlamentare e ministeriale degli uomini raccolti da Francesco Cossiga per fare fronte, fra l'altro, ad una emergenza internazionale. Che era la guerra decisa dalla Nato in Bosnia per troncare il regime liberticida serbo di Milosevic. Nel 2008 Prodi, che era nel frattempo tornato a Palazzo Chigi dopo avere presieduto a Bruxelles una Commissione Europea di cui aveva fatto parte anche Mario Monti, fu sgambettato di nuovo dai bertinottiani, ma anche da un ministro della Giustizia, l'ex cossighiano Clemente Mastella, furente per essere entrato nel solito mirino giudiziario ed avere subìto persino l'arresto della moglie. Nessuno ha mai tolto dalla testa di Prodi, notoriamente molto dura, che a far precipitare il suo secondo governo, prima ancora di Bertinotti e di Mastella, e della sua effettiva debolezza numerica al Senato, era stata la svolta politica impressa da Veltroni con la formazione e la guida di un Pd a «vocazione maggioritaria», deciso a liberarsi degli alleati scomodi o renitenti. Ma purtroppo destinato ad assumerne poi in via privilegiata, anzi esclusiva, uno ancora più scomodo, spiazzante e duro: Antonio Di Pietro. Per inseguire il quale il Pd praticò dopo le elezioni anticipate di quell'anno lo scontro pregiudiziale e furioso contro il quarto governo di Silvio Berlusconi, concluso dai suoi successori alla guida del Pd con le dimissioni, sì, del Cavaliere, ma anche con la sostanziale resa della politica al governo dei tecnici. Di cui Prodi, anche lui curiosamente approdato alla politica come tecnico, e uscito fortunosamente incolume dalle tenaglie giudiziarie imbracciate a Milano nel 1992 da Di Pietro contro Tangentopoli, vede i pregi, ma pure i limiti. È proprio a questi limiti che il professore emiliano appare agli amici, non rassegnati al suo pensionamento, in grado di sottrarre la politica, Dio solo sa ora in che modo e in che ruolo. Smettendo di sicuro di tenere solo conferenze e apparire saltuariamente alle feste di partito. E non facendosi ritentare dalle sedute spiritiche, come quella famosa del 1978, durante il tragico sequestro di Aldo Moro.