La Penisola del "tesoretto" che non c'è
Italiani pagati la metà dei tedeschi
C'è un'Italia che ancora aspetta che qualcuno trovi, disseppellisca e spartisca il «tesoretto». Quello fiscale. Creato con gli incassi della lotta all'evasione. E che da oltre venti anni con diverse forme lessicali: da recupero di evasione a extragettito, ha riempito i discorsi dei ministri e dei politici di ogni colore e grado, finanche del sobrio e compito premier Monti. Una ricchezza tolta ai furbi e stornata agli onesti ma che, a metà strada, causa crisi improvvise, cambi di destinazione e peripezie politiche di ogni genere, alla fine non è mai arrivata nelle tasche giuste. Quelle dei contribuenti onesti. Insomma l'Italia resta la Penisola del tesoretto, ma del tesoretto che non c'è. Ci hanno provato in tanti a trasformarlo in moneta sonante. L'ex ministro delle Finanze, Rino Formica, vigente il pentapartito, non disdegnava di inserire nelle previsioni di entrate, dunque in anticipo rispetto all'effettivo incasso, somme legate al recupero di evasione. Un tesoretto ante litteram, che quando non effettivamente conseguito si trasformava in ulteriore deficit. Altri tempi. Qualche anno dopo fu il governo Prodi a riportare in auge il miraggio della cassa da girare ai contribuenti. Se ne parlò per qualche anno e si accese anche uno scontro interno per decidere la destinazione di 2,5 miliardi di euro recuperati dalle manovre antievasione di Vincenzo Visco e Tommaso Padoa Schioppa. Gli italiani attendevano. Poi arrivò il commissario Ue agli affari economici e monetari, Joaquin Almunia, a far morire le illusioni: «Le entrate inaspettate dovrebbero essere effettivamente utilizzate per ridurre il disavanzo e il debito». Solo un anno dopo il nuovo ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, andò giù duro: «Posso escludere che abbiamo un tesoretto». Onesto. Salvo poi girare una parte del «gruzzoletto» venuto in essere nel 2009 agli ammortizzatori sociali per finanziare il sistema industriale alle prese con la peggiore crisi del dopoguerra. Il tesoretto, potenziale, rinasce nelle carte del governo, nella manovra del luglio scorso. È il fondo-tesoretto con una dotazione da 5,8 miliardi ed è destinato agli Interventi strutturali di politica economica (Ispe) e prevede «interventi volti alla riduzione della pressione fiscale». Anche questa volta solo un sogno. Il governo Berlusconi si dimette, causa spread record, e il tesoretto torna sotto la sabbia. Ci ha provato anche Monti. Purtroppo con lo stesso risultato. «Potremmo forse, nel prossimo consiglio dei ministri, istituire un fondo dove far confluire i ricavi dalla lotta all'evasione, in attesa di verificare la loro entità e la loro destinazione» ha spiegato il Professore da Bruxelles il 21 febbraio. Tutto pronto. Poi il nuovo dietrofront. Niente da fare. Una retromarcia motivata secondo ambienti ministeriali dalla pubblicazione delle previsioni della Commissione Ue sul pil italiano nel 2012. Un -1,3% che rischia di ridurre pesantemente il gettito fiscale. Nell'attesa dunque meglio tenere il fieno in cascina gli hanno suggerito i tecnici dell'Economia. E infatti Monti ha immediatamente smentito una «manovra correttiva». Evitata presumibilmente grazie proprio al tesoretto. L'obiettivo principale resta la correzione dei conti per arrivare al pareggio di bilancio nel 2013. Se proprio si deve contabilizzare una posta per premiare gli onesti contribuenti - avrebbero suggerito i tecnici a Monti - meglio in ogni caso attendere il dato degli acconti fiscali di giugno e gli incassi dell'Ici-Imu. Solo con la cassa ben piena di quattrini, insomma, si possono fare i conti su quanto restituire. C'è anche un altro problema che assilla il governo poi. E cioè prima di ridare soldi indietro ai cittadini, c'è un'altra partita più importante da risolvere. Quella dello sblocco dei crediti della pubblica amministrazione verso i fornitori privati. Si tratta di circa 90 miliardi che se reimmessi nel circuito produttivo potrebbero consentire alle imprese di sanare il deficit finanziario e saltare il ricorso al sistema bancario, ancora a corto di liquidità. A questo si lega poi il discorso degli incentivi dello Stato alle aziende. Un capitolo in stallo. Con molte poste contabili trasformate in residui attivi, dunque gravanti nel bilancio statale, ma senza copertura di cassa e soprattutto oggetto di contenzioso nella maggior parte dei casi. Una partita aperta, ancora senza soluzione, una delle quali passa per il loro azzeramento, su cui il governo Monti si interroga prima di costruire il tesoretto. Che a oggi dunque non c'è. Sulla sua mancanza il ministro Passera e il vice ministro Grilli, sono tornati a difendere la scelta di non buttare il cuore oltre l'ostacolo e quindi evitare la costituzione di un fondo, decidendone anche la destinazione, ancor prima che siano state individuate con certezza le risorse. Passera ha rivendicato come atto di «credibilità» quello di non fare annunci prima del tempo. L'annuncio però lo ha fatto il suo capo, Monti, salvo fare marcia indietro. Con una sola conseguenza. Gli italiani sono rimasti ancora una volta a bocca asciutta.