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I professori guardino l'economia reale

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Quando Eurostat scopre che gli italiani guadagnano la metà dei tedeschi, ed il ministro Fornero dichiara a ruota che «bisogna scardinare questa situazione», viene il sospetto che non abbiano ben chiaro né il punto di partenza né soprattutto quello di arrivo del problema lavoro. Gli italiani che nel 2009 hanno percepito stipendi lordi medi da 23.400 euro rispetto ai 41.100 della Germania, nel 2004 avevano preso 22.053 euro contro i 41.046 dei tedeschi. Questo particolare spread si è caso mai leggermente ristretto. Il problema è che in quei cinque anni si è ingigantito quello con gli altri paesi europei: nel 2004 le retribuzioni francesi erano del 33 per cento superiori alle nostre, oggi siamo al 43. La differenza con l'Olanda era del 68 per cento, è salita al 90. La Danimarca quasi ci doppiava (più 93 per cento), ora il doppiaggio è avvenuto: più 140. Lo spread tra Germania e Italia invece lo si paga su altri fronti. I tedeschi hanno ridotto la pressione fiscale, noi l'abbiamo portata al record del 45 per cento (per chi le tasse le paga); loro hanno realizzato la riforma del lavoro rinunciando al mitico welfare renano, noi siamo bloccati a discutere dell'articolo 18 di una legge di 42 anni fa. La Germania nel 1998 ottenne di entrare nell'euro a sconto, l'Italia alla metà del potere d'acquisto della lira. I risultati li paghiamo ora, in tempi di crisi e concorrenza spietata tra partner: il gas costa il triplo della media europea, l'elettricità un terzo in più, la benzina il 20 per cento. Ma soprattutto la Germania, pur con le retribuzioni doppie, sta facendo il diavolo a quattro sui mercati mondiali con il record assoluto di avanzo commerciale: mille miliardi di euro. I consumi tirano anche all'interno, tanto che la disoccupazione tedesca è al 5,5 per cento, quella italiana (edulcorata dalla cassa integrazione) all'8,9. Sergio Marchionne dice che le cinque fabbriche Fiat italiane potranno sopravvivere solo se diverranno così competitive da esportare negli Usa: eppure il costo del lavoro di Fiat-Chrysler è stimato in 26 euro in Italia contro i 38 in America. Come mai la Chrysler si è rimessa a produrre profitti e la Fiat è ancora in perdita? E perché la Volkswagen, basata in Germania, sta diventando il più forte player automobilistico del mondo? Una spiegazione l'ha data ieri Mario Sechi: la dimensione lillipuziana, e quindi incapace di aprirsi alla ricerca, al nuovo ed al credito, del nostro tessuto industriale. Aggiungiamo gli ammortizzatori sociali che costano sempre più, 18 miliardi nel 2011 contro gli otto del 2007, e seguono criteri da posto fisso che andavano bene all'epoca delle partecipazioni statali, del muro di Berlino e dell'economia non globalizzata. Poi le altre rigidità, il contratto unico, il cuneo fiscale e tutto il resto: compreso lo scandalo di un'amministrazione pubblica indebitata con le aziende private per 80 miliardi e che paga (quando paga) con sei mesi di ritardo, cinque più della Germania, quattro della Francia. Magari, dopo aver blindato i conti a suon di tasse e garantito ad Angela Merkel il pareggio di bilancio, i professori farebbero bene a gettare un occhio all'economia reale. Siamo la seconda manifattura e la terza economia d'Europa, ma rischiamo di perderci i settori di punta. Oltre alla spada di Damocle pendente sulla Fiat, è in crisi l'intero sistema-casa: edilizia, elettrodomestici e mobili. Dal 2007 i cali medi di fatturato sono stati superiori al 20 per cento; ma distretti già fortissimi come Fabriano, la Murgia, il basso Piave accusano perdite del 60. Il tutto è in un dossier fresco di stampa del servizio studi di Intesa Sanpaolo: il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, il suo vice Mario Ciaccia, e anche la Fornero che da lì provengono, dovrebbero saperne qualcosa. O vogliamo continuare ad occuparci solo di rigore, regole e massimi sistemi?

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