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Veltroni: l'articolo 18 non va abolito

Walter Veltroni

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Ci sono cose che, anche se appartengono alla storia recente della sinistra italiana, sono già una tradizione consolidata. Tra queste c'è, di diritto, il «maanchismo» di Walter Veltroni. Lui stesso ci scherza sopra e a volte viene da pensare si tratti di un riflesso incondizionato. Di certo le sue accelerazioni, e le successive frenate, hanno sempre un qualche effetto all'interno del Partito Democratico. Così ad esempio, domenica scorsa, intervistato da Repubblica, l'ex segretario aveva detto sì all'ipotesi di riformare l'articolo 18. «Totem e tabù - aveva spiegato - si intitolava un libro di Freud. Ed è perfetto per definire gran parte del discorso pubblico in Italia. Ci vogliono diritti per chi non è ha nessuno. Questa è oggi una vera battaglia di sinistra». Parole che avevano scatenato l'immediata replica, con successiva polemica, del responsabile Economico del partito Stefano Fassina: «La posizione del Pd è diversa dalla tua, ovviamente legittima, ma minoritaria nel partito e più vicina, invece, alla linea del "pensiero unico" e alle proposte del centrodestra». Cosa è successo da allora è cosa nota. Fassina è finito sulla graticola sia per gli attacchi a Veltroni, sia per la scelta, annunciata, di partecipare alla manifestazione della Fiom in programma il 9 marzo. E Walter? Ha deciso di tornare sui suoi passi. Così ieri, ospite di Lucia Annunziata a In mezz'ora, ha spiegato che il governo non abolirà l'articolo 18 «non avrebbe senso. Bisogna partire dal tema della precarietà. La riforma del lavoro deve essere il prodotto di un'intesa tra sindacati e governo. Mi auguro che nessuna delle parti, né il governo, né la Confindustria, né i sindacati voglia cogliere questa occasione per introdurre un elemento di rottura». Insomma a sette giorni di distanza l'articolo 18 torna ad essere un totem intoccabile. Certo, ci sono ragioni che impongono, soprattutto tra i Democratici, di mostrare che la «ditta è unita». Di non mettere a rischio il sostegno al governo Monti. Ma agli atti resta la "giravolta" di Walter che, comunque, non rinuncia ad animare un po' la discussione. Anche interna. L'ex sindaco di Roma rimette sul tavolo il tema della riforma della Rai chiedendo a Monti di intervenire («mi aspetto un'uscita dei partiti» da Viale Mazzini), ma si sa che il tema è considerato intoccabile dal centrodestra. Poi avverte quelli che vorrebbero andare in piazza con la Fiom il 9 marzo: «Abbiamo già conosciuto una stagione in cui i ministri manifestavano contro il governo di cui facevano parte, poi deciderà il segretario, ma ogni gesto deve corrispondere ad una coerenza». Peccato che non tutti all'interno del Pd la pensino come lui. Su una linea completamente opposta, ad esempio, si pone il sindaco di Bari Michele Emiliano che ospite della Zanzara su Radio 24 "candida", in vista delle prossime elezioni, il segretario dei metalmeccanici della Cgil Maurizio Landini. Poi si rivolge al suo partito: «Deve stare con la Fiom, non capisco tutte queste discussioni sulla manifestazione. Il partito deve stare dalla parte degli operai e andare al corteo. Con alcuni sindacati possiamo anche litigare, ma non possiamo stare dall'altra parte». Quindi aggiunge: «Il Pd è in mano a gente troppo legata al passato, senza capacità di innovazione. Voglio bene a Bersani, ma non è stato in grado di trasformare il partito nello strumento di cambiamento del Paese. Per questo ci vuole una lista civica. Sono un rompiscatole e Bersani lo sa, ma senza di me il Pd sarebbe noioso e anche incomprensibile ai cittadini comuni». Certo, tra «maanchisti» e «rompiscatole», la vita del segretario Pd è proprio un inferno.

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