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I diritti sul lavoro vanno «spalmati» tra giovani e anziani

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Ilmercato del lavoro in Italia è spaccato in due come una mela e tutta la flessibilità occorrente al sistema produttivo è scaricata sui nuovi occupati e quindi sulle giovani generazioni. Ma non avrebbe senso «disboscare» le forme di assunzione in entrata (che non sono 46 come afferma una leggenda metropolitana ripetuta stancamente dai media), ognuna delle quali corrisponde a situazioni particolari del rapporto e della prestazione lavorativa, senza affrontare, attraverso un riforma equilibrata dell'articolo 18 dello Statuto, la questione della rigidità in uscita. In caso contrario, dal confronto in atto non verrebbe – come necessario – una maggiore flessibilità complessiva, ma un irrigidimento del mercato del lavoro nel suo insieme, che ingesserebbero ancor di più – lo ha rilevato Reti imprese – il sistema produttivo. Infatti, per quanto sia criticabile e iniqua l'attuale situazione, le aziende (per le quali vale il primum vivere) sono oggi in grado di garantirsi, mediante gli strumenti contrattuali previsti per le assunzioni, anche quella libertà d'azione, al momento della risoluzione del rapporto di lavoro (ritenuta indispensabile in una fase dell'economia in cui i livelli degli organici sono diventati una variabile dipendente dai «picchi» e dai «flessi» produttivi) resa sempre più problematica dalla disciplina del licenziamento individuale, unita agli effetti devastanti dei tempi lunghi della giustizia con i conseguenti imprevedibili oneri economici. Sarà forse una tattica negoziale (perché – diciamoci la verità – a sindacati e a Confindustria si è concesso quel diritto di negoziare che il Governo ha negato ad altri soggetti sociali) ma da quei tavoli rimbalzano troppo frequentemente progetti regolatori, prescrizioni, misure restrittive, limitazioni che investono una platea di rapporti disciplinati da norme precise e chiare, che attendono soltanto una puntuale applicazione. Può capitare pure che qualche datore abusi di tali norme, violando la legge. A casi di questo tipo non si fa fronte abrogando tipologie contrattuali – volte a regolare in modo adeguato modalità specifiche di svolgimento della prestazione lavorativa – soltanto perché di esse taluni datori si avvalgono in modo improprio. Soprattutto, non è vero che l'emergenza in Italia sia la precarietà (si parla del «precariato» come una volta si faceva del «proletariato») e non la disoccupazione giovanile, come se la prima fosse la premessa della seconda e come se risolvendo – mediante un giro di vite legislativo – la precarietà si avviasse a soluzione anche la criticità della disoccupazione. È uscito in questi giorni (pubblicato da Il Mulino insieme ad Arel, uno dei centri culturali della sinistra) un saggio (dal titolo Giovani senza futuro) a cura di Carlo Dell'Aringa e di Tiziano Treu. Si leggono nel capitolo introduttivo alcune considerazioni che dovrebbero indurre a disboscare i luoghi comuni. «Prendendo a riferimento – ricordano i due studiosi – i giovani di età compresa tra 15 e 19 anni, tra il 2000 e il 2007 il tasso di disoccupazione scende dal 23,9% al 14,5%, una riduzione di quasi 10 punti percentuali che rappresenta un vero record positivo tra i principali Paesi europei, dove la disoccupazione giovanile si è mediamente ridotta, nel medesimo periodo di tempo, di meno di 2 punti percentuali». Anche i Neet (i giovani che sono fuori dal ciclo formativo, non hanno lavoro e non lo cercano) erano il 21,8% nel 2000, mentre nel 2007 erano scesi al 18,9%. Ed erano gli anni in cui l'Italia si apriva alla legislazione sul lavoro flessibile. Il ministro Elsa Fornero ha usato, parlando a Torino, un verbo appropriato (spalmare) a proposito di una nuova stagione di diritti. Confidiamo che se ne ricordi. *Vice presidente della Commissione Lavoro

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