La guerra contro il Cav non è ancora finita
L’ultima udienza del lungo processo penale di primo grado contro Silvio Berlusconi per il caso Mills, nell’aula della decima sezione del tribunale di Milano, doveva ancora cominciare e, ben prima quindi che se ne potesse conoscere l’esito di proscioglimento per prescrizione, già i cultori delle interminabili, ossessive cacce in toga al Cavaliere studiavano come prepararne altre. No. Non bastano i processi ancora in corso, persino per prostituzione minorile, o quelli in cantiere, tra la stessa Milano e Roma, o quelli che i suoi avversari sperano di vedere nascere prima o dopo da indagini sulla mafia tra Firenze, Palermo, Trapani e chissà dove altro. Come succede quando si ammazza il maiale, la regola è di non buttare nulla: nel caso del Cavaliere, neppure le occasioni, o i pretesti, ravvisabili nella memoria difensiva da lui predisposta per l’ultima udienza del processo Mills. O nella sintesi diffusa per la stampa. Dove l’ex presidente del Consiglio ha messo nell’elenco dei processi, delle indagini, dei magistrati che si sono occupati di lui, delle perquisizioni negli uffici delle sue aziende, delle udienze e di quant’altro gli è stato riservato in 14 anni e più di esperienza giudiziaria, anche gli oltre 400 milioni di euro che gli sono costate «le parcelle di avvocati e consulenti». Ebbene, di questa enorme cifra, per quanto inferiore a quella versata dal suo gruppo a Carlo De Benedetti, dietro sentenza peraltro non definitiva, per il contestato acquisto della Mondadori, sapete che cosa ha colpito di più il cronista giudiziario di un giornale come il Corriere della Sera, che pure non è quello più militarmente o sistematicamente schierato, diciamo così, nella flotta mediatica da tempo in azione contro Berlusconi? Che il dato sia «difficile da riscontrare nelle dichiarazioni dei redditi» degli avvocati e consulenti del Cavaliere. Nei panni dei quali, come in quelli del loro cliente, comincerei a preoccuparmi conoscendo l’ostinazione e la fantasia di cui sono stati capaci gli inquirenti nei riguardi dell’ex presidente del Consiglio e dei suoi amici o collaboratori. E, nonostante il verdetto di ieri, non farei troppo affidamento sulla prescrizione, vista la disinvoltura con la quale si è cercato di calcolarne i tempi con l’affare Mills, sino a stabilire, per esempio, come Berlusconi ha giustamente lamentato, commentando le condanne subite dall’avvocato inglese come corrotto da lui per mentire alla magistratura in alcuni procedimenti, che la presunta corruzione scatta non quando si riceve il danaro ma quando si comincia a spenderlo. «Una tesi stupefacente», è stata definita dal Cavaliere questa modalità di calcolo, senza la quale il reato contestato a Mills, e a lui, «sarebbe caduto in prescrizione già tre anni fa», pur non volendo credere alla confessione dello stesso Mills di avere per un bel po’ mentito sulla provenienza berlusconiana dei 600 mila dollari contestatigli. Una tesi stupefacente ma «sposata - gli rispondeva ieri il cronista giudiziario del Corriere nei panni un po’ improvvisati di difensore della Procura della Repubblica di Milano - dalle sezioni unite della Cassazione sul coimputato Mills nel 2010». Cioè due anni fa, quando la Cassazione però chiuse la lunga vicenda processuale dell’imputato britannico certificando proprio, e comunque, l’intervenuta prescrizione. Se confermata, avrebbe il sapore e l’aspetto di una provocazione la circostanza rivelata ieri dallo stesso Corriere, nello spazio però della cronaca politica, e non smentita sino al momento in cui scrivo, di una riunione all’Associazione Nazionale dei Magistrati, il sindacato cioè delle toghe, durante la quale il Pubblico Ministero in persona del processo Mills avrebbe confidato ai colleghi, raccogliendone «risate, applausi e vivi complimenti», come si sarebbe adoperato per «ritardare i tempi della prescrizione». Egli, fortunatamente per chi non ne condivide i metodi, ha mancato l’obbiettivo, come si è visto, ma per poco. A questo punto, lasciando perdere le dispute da legulei scatenatesi sulla sentenza appena emessa «di non doversi procedere», forse al cittadino comune preme di più capire perché mai nel nostro sistema giudiziario così malmesso, in cui molti uffici non hanno neppure i soldi per le fotocopie, questo processo al Cavaliere sia entrato e rimasto nelle priorità del tribunale di Milano, con tanto di calendarizzazione delle udienze. Si era ben consapevoli che esso non potesse comunque arrivare ad una sentenza definitiva, di terzo grado. In verità, più che un grande processo, a dispetto dei cinque anni della sua durata e dei dieci trascorsi dai fatti addebitatigli, quello che si è concluso ieri contro Berlusconi è stato l’ennesimo, grande pretesto. È stato un altro capitolo della guerra politica condotta con ogni mezzo, anche quelli giudiziari, contro un uomo colpevole, più che di reati, di avere scombinato nel 1994 il disegno di potere della sinistra. Che era sicura di vincere le elezioni anticipate di quell’anno dopo che i vecchi partiti di governo di centrosinistra - sì, di centrosinistra, quello vero, realizzato dalla Dc, dal Psi e dai loro alleati - erano stati sgominati dalle Procure della Repubblica con una gestione molto mirata delle indagini pur sacrosante sul finanziamento illegale della politica. E sulla corruzione che l’accompagnava spesso, non sempre, come fu dimostrato in molti processi. Nel ventesimo anniversario dell’inizio di quella tragica stagione, apertasi con l’arresto in flagranza di Mario Chiesa, gli avversari di Berlusconi, convinti o convertitisi all’idea che egli altro non sia stato che l’erede della Prima Repubblica delle tangenti, e non il realizzatore della Seconda Repubblica, per quanto incompiuta e anch’essa accidentata, si erano apprestati a festeggiarne la condanna, pur giudiziariamente nulla, in un processo finito invece con il suo proscioglimento per prescrizione già in primo grado. Un verdetto esplicito di responsabilità, senza la certificazione prescrittiva, sarebbe stato venduto nel mercato mediatico e politico, sia pure barando, come un risultato comunque acquisito. La guerra naturalmente continuerà, per quanto il Cavaliere si sia volontariamente tolto dalla prossima gara a Palazzo Chigi. Ed abbia ben scarse possibilità, per quante gliene vengano strumentalmente attribuite per generare nuove ostilità e alimentare le vecchie, di scalare il Quirinale. Il sistema d’elezione parlamentare del presidente della Repubblica privilegia notoriamente gli uomini meno esposti nella lotta politica. Giovanni Leone, per esempio, fu preferito nel 1971 ad Amintore Fanfani e Aldo Moro; Sandro Pertini nel 1978 a Ugo La Malfa e Benigno Zaccagnini; Francesco Cossiga nel 1985 ad Arnaldo Forlani; Oscar Luigi Scalfaro nel 1992 ancora a Forlani e a Giulio Andreotti; Giorgio Napolitano nel 2006 a Massimo D’Alema. La leadership politica di Berlusconi prescinde dalle sue cariche, e dagli espedienti dei processi. I suoi interlocutori si mettano il cuore, e la testa, in pace. Il Cavaliere continueranno a trovarselo davanti, anche senza invitarlo più o meno volentieri a pranzo.