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E Berlino perde la faccia

Il presidente dimissionario della Repubblica tedesco Christian Wulff e la moglie Bettina. A destra la cancelliera Angela Merkel

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Ci scusiamo se saremo politicamente scorretti, ma alzi la mano chi ieri mattina non ha provato un sottile piacere alla notizia della bufera istituzionale che si è abbattuta sulla Germania e sul suo governo, facendo saltare il summit tra Angela Merkel e Mario Monti. Bentornati sulla terra, partner tedeschi: evidentemente la politica è «sangue e merda» (citiamo Rino Formica, esponente della Prima Repubblica cui non difettava lo spirito d'osservazione) anche alle latitudini nordiche e non solo nel molle Mediterraneo. Non ci soffermeremmo più di tanto su questo aspetto se la Germania stessa, nell'ultimo anno, non avesse voluto imporre al resto d'Europa non solo l'assoluto rigore contabile, ma anche una sorta di disciplina sociale da stato etico ingerendosi a tutto spiano nelle vicende interne di paesi che dovrebbero essere suoi alleati, mischiando economia, finanza e democrazia. Rigore e bilanci in ordine possono essere discussi come unica o prevalente terapia; ma in dosi opportune e sotto il controllo dei naturali organismi elettivi e democratici, male non fanno. Lo stato etico invece ovunque lo si sia sperimentato ha prodotto danni e tragedie. Figuriamoci adesso che l'etica si intreccia con i bilanci della Deutsche Bank e delle corporation tedesche, comprese quelle militari. L'affaire Wulff rivela secondo noi soprattutto una cosa: quanto la ragione politica sia prevalente anche in Germania, quanto gli interessi dei partiti si intreccino con quelli della classe dirigente, ed in definitiva quanto questo kombinat abbia orientato la deriva intransigente sulla scena europea della Merkel e del suo super-falco ministro delle Finanze, Wolfgang Schauble. Ovviamente questo non significa che la cancelliera ed il ministro abbiano a loro volta scheletri nascosti. Ma che rispondano alla politica, sì; che le loro mosse abbiano ben presenti le elezioni del prossimo anno e le strategie della Cdu, il loro partito, ancora di più. E che la Cdu abbia fatto leva da una parte sugli interessi bancari-industriali, dall'altra sulla mitica figura del «contribuente tedesco» che non paga i debiti degli altri, peggio ancora. La storia è come sempre maestra, basta un po' di memoria. La crisi greca è esplosa nel 2009, quando ci si è accorti che l'allora governo conservatore aveva falsificato i conti pubblici. Problema: come regolarsi con un Paese indebitato per 50 miliardi di euro con il sistema bancario tedesco, ed ancora di più che fare se il contagio si fosse trasmesso alla Spagna, il cui debito verso la Germania era cinque volte tanto? Come maneggiare la scabrosa faccenda delle commesse militari franco-germaniche già firmate con Atene? O le trattative per le telecomunicazioni? Certo, c'era, e c'è ancora, la legittima insofferenza dei contribuenti renani a non sobbarcarsi i debiti del Club Med. Problema che peraltro era stato messo in subordine venti anni prima, quando il prezzo dell'unificazione con l'Est fu scaricato non solo sui tedeschi dell'Ovest, ma sull'Europa intera. E se paragoniamo i costi del 1990 con quelli dell'intero debito greco qualcosa non torna: 1.500 miliardi di euro allora (stimati dall'Università di Berlino), 300 miliardi oggi. Dunque il sospetto che le virtù fiscali siano state un alibi o uno scudo è legittimo. Ancora di più se guardiamo alle disavventure elettorali della Merkel nel 2010 e 2011, con la perdita di tutti i land a favore dei socialdemocratici. Un tempo i problemi di consenso interno si risolvevano con le guerre; adesso sempre con le guerre, ma finanziarie. Tra le armi non convenzionali di questi conflitti, si è affermata in particolare quella di sostituire governi regolarmente eletti (magari incapaci: ma chi dovrebbe giudicarli se non i loro elettori?) con esecutivi tecnocratici di fiducia di Berlino. Ulteriore affinamento di questo strumento è la pretesa di ottenere garanzie scritte su programmi e governi futuri in caso di elezioni, prima ancora che si aprano le urne. Poi il divieto stabilito a Bruxelles e Francoforte di chiedere ai greci attraverso un referendum se restare o meno nell'euro, evidente conferma che si vuole che Atene rimanga nella moneta unica, e non importa se con stipendi da fame e condizioni umilianti: l'importante è non trovarsi crediti convertiti in dracme. Infine il paradosso della campagna per l'Eliseo condotta «mano nella mano» dalla Merkel con Nicolas Sarkozy. L'asse franco-tedesco, benché sempre più scassato, è infatti strategico in questo disegno. Diversamente la Germania dovrebbe disvelare quello che è già il piano di riserva di molte banche e aziende, ossia il ritorno al marco, anzi ad un super-marco, che però costerebbe parecchio in termini di export e di competitività. E certo non consentirebbe performance come i mille miliardi di euro di attivo commerciale appena realizzati. Ma di nuovo la storia, questa grande maestra, dovrebbe insegnare che i progetti di espansione egemonica sull'Europa si sono sempre infranti con la realtà. Se le elezioni francesi di fine aprile saranno vinte da Francois Holland, la Merkel perderà il suo più prezioso alleato oltreconfine. Se la crisi istituzionale, che comunque costringerà la Cdu a venire a patti con i socialdemocratici, non si chiuderà in fretta, la situazione potrebbe capovolgersi anche all'interno. Infine nello stesso governo di Berlino si è già aperta una crepa, tra i duri alla Schauble spalleggiato dall'Olanda, favorevoli ad un default «disordinato» della Grecia, una sorta di Ordalìa, ed i meno duri tra i quali la Merkel, che assieme a Finlandia ed Austria propendono per un ritorno alla normalità. È significativo che ieri mattina, come prima mossa dopo le dimissioni di Wulff, la Merkel e Monti abbiano rassicurato in conference call il premier greco Lucas Papademos sullo sblocco, lunedì, dei famosi aiuti. Vedremo se stavolta l'impegno reggerà. Ma anche in Germania si vota, nel 2013, e la Merkel sta meditando di non trovarsi esposta su troppi fronti. Anche qui la storia aiuta.

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